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Mark Lanegan

Ian Curtis e i Joy Division: Iperacusia di una giovane anima

R O C K M E M O R I E S


Articolo di Andrea Notarangelo

Le persone vivono e muoiono, alcune nascono due volte e vivono per sempre. Questa storia comincia dalla fine, per la precisione dal 18 maggio 1980; ma ad essere sinceri avrebbe potuto iniziare poco prima, il 15 giugno del ’79 ad esempio, quando uscì Unknonw Pleasures, o forse agli sgoccioli della vicenda, il 18 luglio dell’80, quando Closer, secondo e ultimo disco della band, venne dato alle stampe e riempì gli scaffali di tutti i negozi di dischi, prima del Regno Unito e in seguito di tutto il mondo. Il 18 maggio però è una data emblematica; si tratta del momento in cui la storia terrena di Ian Kevin Curtis, cantante e autore di tutti i testi del suo gruppo, s’interruppe bruscamente. E a seguire arrivò la leggenda con annesso bagaglio di verità e fantasie mescolate assieme. Nonostante il tragico atto, la fama del nostro protagonista crebbe poco alla volta; senza fornire qui un excursus storico pieno di date e citazioni, è necessario però dare un ordine e narrare dell’opera breve ma intensa che contraddistinse la dark band per antonomasia. I Joy Division.

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In memoria di Mark Lanegan: un eterno e bruciante ricordo del Poeta Lupo.

R O C K M E M O R I E S


Articolo di Arianna Mancini

“I am the wolf, without a pack/ Banished so long ago/ I’ve survived on another skill/ And on my shadow on/ All I’ve learned is that poison stings…/I am the wolf, calming the beast…/I am the wolf, out wild and free”. (Sono il lupo, senza branco/ Bandito tanto tempo fa/ Sono sopravvissuto grazie a un’altra abilità/ E alla mia ombra/ Tutto ciò che ho imparato è che il veleno punge…/Io sono il lupo, che calma la bestia…/Sono il lupo, libero e selvaggio”).

25 novembre 1964, Ellensburg (USA) – 22 febbraio 2022, Killarney (IRL). Ogni inizio ha la sua fine, due date e nel centro, per chi lo ha amato e lo ha fatto incondizionatamente, infinite emozioni, fascinazione, oscurità e calore che scavano dentro la parte più nascosta. Spazi che si dilatano, viaggi: sia quelli che percorri stando fermo in rapimento d’ascolto che quelli fatti solcando le autostrade con l’adrenalina che pulsa in corpo per l’imminente attesa di un suo concerto.

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The Afghan Whigs – How Do You Burn? (BMG, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Antonio Sebastianelli

Questo è un periodo particolarmente fortunato per chiunque ami gli Afghan Whigs. Un nuovo disco (solido, essenziale e soprattutto necessario, di cui parleremo a breve) una tournée europea con date anche in Italia e addirittura un libro, smilzo ma intrigante, per i tipi di Arcana (!).
Gli Afgani liberali sono sempre stati, nonostante un relativo buon successo nei lontani ‘90, un gruppo singolare e financo di nicchia. Dentro e fuori dal proprio tempo. Non erano così distanti dal Grunge e dai gruppi coevi, ma allo stesso tempo si abbeveravano a piene mani alle fonti sorgive della Black Music: Soul, Funk, teatralità e pathos a quintalate. Un front man, Greg Dulli (di cui avevo già avuto il piacere di parlare qui), che scavava nel pozzo senza fondo della sessualità maschile come mai prima d’ora. 

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Davide Pansolin – Veleno Sottile – La storia degli Screaming Trees (Tsunami Edizioni, 2022)

L E T T U R E / I N T E R V I S T A


Recensione di Alberto Calandriello

È uscito da qualche settimana, dopo una lunga gestazione, il libro Veleno Sottile – La storia degli Screaming Trees, volume unico, al momento, dedicato alla band di Ellensburg, scritto da Davide Pansolin ed edito da Tsunami Edizioni, “benemerita” casa editrice, da sempre attenta al mondo del rock in tutte le sue derivazioni, anche quelle più estreme.

L’autore è invece un sognatore vero, uno degli ultimi romantici, che crede alla diffusione e alla condivisione musicale e che da sempre si spende in prima linea in tal senso. Fanzinaro, speaker radiofonico e a capo di una piccola etichetta discografica per diversi anni (Vincebus Eruptum) Pansolin porta avanti ogni progetto con ostinato entusiasmo, finendo per coinvolgere chi lo segue. Della band in questione poi è sempre stato un fan e da appassionato musicale ha colto subito la sua importanza in quel panorama forse confuso e troppo affollato che si cela dietro il termine “Grunge”.

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Mark Lanegan – Straight Songs Of Sorrow (Heavenly Recordings, 2020)

R E C E N S I O N E


Articolo di Antonio Sebastianelli

Tutto ciò che ho avuto nella vita è stato un vaso di Pandora pieno di dolore e miseria. Sono entrato in studio e mi sono ricordato la merda che ho messo via 20 anni fa.” (Mark Lanegan)

Ho ascoltato per anni Mark Lanegan senza mai scrivere nulla su di lui. Lo sentivo vicino, la sua musica riusciva sempre a emozionarmi (e lo fa ancora), ma qualcosa mi teneva a distanza e mi intimoriva. Nell’atto di mettere nero su bianco le mie impressioni qualcosa si inceppava. Come se la “Voce di Ellensburg” fosse una montagna troppo alta da scalare. L’intensità delle sue canzoni infatti, pur non raggiungendo mai il punto di rottura si tiene ben lontana da qualsiasi tipo di catarsi. Come a voler dire: “questo è quanto”. “Questo è quello che la vita mi ha regalato: un vaso pieno di dolore e miseria.” Il suo sguardo si fa più lucido e penetrante proprio quando la pena è così forte che vorresti guardare altrove. La voce, quella voce, pare giungere proprio dal pozzo di cui canta in un suo pezzo, Hotel.

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Mark Lanegan – Gargoyle (Heavenly Recordings, 2017)

Articolo di Luca Franceschini.

Recensire oggi un disco di Mark Lanegan è impresa da una parte difficilissima e dall’altra oltremodo semplice. Difficilissima perché c’è tutto il peso del suo passato, dapprima con gli Screaming Trees, poi con i primi capolavori da solista, ancora con i dischi assieme ad Isobel Campbell, a Duke Garwood e a tutte le altre collaborazioni che ha realizzato in tutti questi anni; Mark Lanegan come monumento vivente, insomma.
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