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Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride, Brian Blade – LongGone (Nonesuch records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Nonostante questo LongGone sia stato accreditato ai quattro musicisti che lo compongono – Redman, Mehldau, McBride, Blade – in realtà si avverte aleggiare, in lungo e in largo, la volontà e lo spirito di Joshua Redman. Fu per merito suo, infatti, che nel 1994 questo quartetto si unì la prima volta per suonare le proprie composizioni in MoodSwing, in cui lo stesso Redman era indicato come unico titolare. Ma venticinque anni dopo i quattro musicisti si sono ritovati per una seconda uscita discografica, RoundAgain (2020) e quella volta, così come ora, l’accredito venne esteso all’intera formazione. Tuttavia non c’è dubbio che l’impronta del sassofonista californiano sia quella più marcata essendo sue le composizioni dell’album ed avendo apparentemente più spazi di manovra all’interno del gruppo rispetto agli altri. Tanto da suggerire l’impressione che tutto venga fatto ruotare, quindi, intorno alla personalità di Redman, anche se nell’ultimo brano dell’album, l’unico registrato live, si può cogliere una maggior convinzione collettiva. Quando si riunisce un supergruppo come questo, generalmente, o ne viene fuori un capolavoro – penso sempre al Kind of Blue di Miles Davis & C. – oppure un lavoro pulito, preciso, ben calibrato come LongGone. Una sorta di verifica dello stato dell’arte e dell’amalgama di un quartetto di amici-musicisti che ha ciascuno, per proprio conto, una lunga scia di successi e soddisfazioni. Ci si può smarrire nelle singole discografie di questi jazzisti, tra titolarità e collaborazioni varie, per cui non c’è alcun dubbio che il livello professionale, tecnico e creativo ottenibile sia più che buono. Tutto bene, quindi? Da un certo punto di vista sicuramente sì, questo è un disco “perfetto”, misurato col bilancino, dove non si avverte una sola sbavatura – e come si potrebbe con questa formazione di stelle? Se però guardiamo le cose da una diversa angolazione potremmo anche rimarcare una certa “freddezza” nell’esecuzione, forse più attenta all’aspetto formale che non al coinvolgimento emotivo. Oltre al sax tenore di Redman suonano, riassumendo, Brad Mehldau al piano, Christian McBride al contrabbasso e Brian Blade alla batteria.

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Dave Stryker – As We Are (Strykezone Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Se uno come Pat Metheny, all’interno del proprio sito web, considera attualmente Dave Stryker tra i migliori chitarristi jazz in circolazione, una ragione plausibile ci dovrà pur essere. Stiamo parlando di un musicista di sessantacinque anni, americano originario del Nebraska, con alle spalle oltre una quarantina di pubblicazioni discografiche sia come titolare che come co-autore e che vanta una serie di collaborazioni illustri con gente come Stanley Turrentine, Andy Laverne, Eliane Elias, Bob Mintzer. Il fatto che abbia molto pubblicato in carriera con l’etichetta danese SteepleChase, specializzata in jazz mainstream di alta classe, suggerisce fino ad un certo punto il contenuto di questo suo ultimo disco, As We Are. In questa uscita, infatti, Stryker si circonda di partner dai nomi risonanti come il contrabbassista John Patitucci, il batterista Brian Blade e il pianista Julian Shore. Non contento, ha anche pensato di aggiungere un quartetto d’archi con i due violini di Sara Caswell e Monica K. Davis, la viola di Benni Von Gutzeit – che viene dal Turtle Island Quartet – e dal violoncello di Marika Huges. È proprio riguardo l’intervento di questo quartetto che si gioca gran parte del progetto musicale di Stryker. Contrariamente a molti casi analoghi in cui gli archi si limitano a un sottofondo di colore – una sorta di scenografia morbida dietro la prima linea strumentale offerta dai jazzisti – in questo caso essi sono stati pienamente integrati nelle composizioni, soprattutto grazie agli arrangiamenti di Shore. Ecco perché lo stesso Stryke non ha esitato a definire questo suo ultimo album come “il disco dei suoi sogni”, avallando direttamente l’ambizione di raggiungere l’acme della sua produzione creativa, cogliendo questa opportunità d’integrare la personalità sonora degli archi con gli strumenti più tradizionalmente utilizzati da un gruppo jazz. La musica che ne consegue è molto omogenea, si sviluppa senza scosse eccessive e tratteggia l’idea progettuale di un discorso uniforme in cui non si tradisce mai una certa morbidezza ambientale, sostenuta anche dalla timbrica” montgomeriana” e vellutata della chitarra. Stryker non è un musicista che ami le iperboli, i suoi assoli sono sempre puliti, niente distorsioni in questo frangente e soprattutto nessuna nevrosi interpretativa, anzi, l’atmosfera resta immersa in un piacevole senso di distensione emotiva. La presenza contemporanea della ritmica affidata a Patitucci e Blade garantisce una ben definita provenienza semantica dalla tradizione americana più classica mentre i violini innestano nella musica il loro passo leggero, quasi immateriale.

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Ron Miles – Rainbow Sign (Blue Note Records, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Per approcciare Rainbow Sign, cioè l’ultimo lavoro del cornettista Ron Miles, bisogna avere l’accortezza di superare i primi novanta secondi di musica perché questi potrebbero indurci a formulare considerazioni completamente distopiche, almeno fino a quando tre o quattro delicati intermezzi di rullante e piatti non ci aprano la strada facendoci intuire la giusta direzione. Quei primissimi suoni iniziali che sembrano così rarefatti e casuali si organizzano ben presto in un insieme pieno di fascino, dopo aver richiesto al blues e a volte al rock tutti gli stimoli e i guizzi propositivi necessari per intraprendere la giusta strada. In effetti, Miles ha collaborato non solo con colleghi jazzisti ma anche con personalità provenienti dal mondo del rock, come Ginger Baker – chi non si ricorda dei Cream? – e come Joe Henry. Pulsa forte, il cuore di questo lavoro. Se ne avvertono i battiti affiorare sottopelle, se ne intuisce il flusso melodico. Si parla di momenti di grande, raffinata bellezza e di astratta rarefazione armonica.

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