R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Per approcciare Rainbow Sign, cioè l’ultimo lavoro del cornettista Ron Miles, bisogna avere l’accortezza di superare i primi novanta secondi di musica perché questi potrebbero indurci a formulare considerazioni completamente distopiche, almeno fino a quando tre o quattro delicati intermezzi di rullante e piatti non ci aprano la strada facendoci intuire la giusta direzione. Quei primissimi suoni iniziali che sembrano così rarefatti e casuali si organizzano ben presto in un insieme pieno di fascino, dopo aver richiesto al blues e a volte al rock tutti gli stimoli e i guizzi propositivi necessari per intraprendere la giusta strada. In effetti, Miles ha collaborato non solo con colleghi jazzisti ma anche con personalità provenienti dal mondo del rock, come Ginger Baker – chi non si ricorda dei Cream? – e come Joe Henry. Pulsa forte, il cuore di questo lavoro. Se ne avvertono i battiti affiorare sottopelle, se ne intuisce il flusso melodico. Si parla di momenti di grande, raffinata bellezza e di astratta rarefazione armonica.

L’impressione è quella di un patchwork, un paesaggio di finestre aperte in spazi interiori a tratti pieni di malinconica speranza e di promesse così come si presenta nell’iconografia immaginaria il simbolismo dell’arcobaleno citato nel titolo. La cornetta di Ron Miles, per sua genetica, ha un suono appena più aspro rispetto al flicorno e meno squillante della tromba ed è adatta a sottolineare i chiaroscuri, le continue oscillazioni dell’umore che ondeggiano tra le note di questo lavoro composto sull’onda emotiva seguita alla morte del padre dello stesso autore. Si viene a delineare una sorta di epitaffio evitando di soffermarsi sul dolore della perdita ma, al contrario, sottolineandone i segni del cambiamento e del passaggio verso una dimensione spirituale definitivamente ultraterrena. Il gioco riesce anche per grande merito dei suoi collaboratori, veri e propri astri luminosi del jazz contemporaneo e mi riferisco a Jason Moran al piano, Bill Frisell alla chitarra, Brian Blade alla batteria e Thomas Morgan al contrabbasso. Un quintetto già ampiamente collaudato dai tempi di I’m a man uscito nel 2017 e che ora accompagna Miles in questo esordio per la Blue Note.
Il brano di apertura, il lunghissimo Like those who dream (oltre quindici minuti) sembra essere quello più programmatico, il contratto d’intenti, la carta costituzionale dell’intero progetto. Si scende poi verso territori più conosciuti con la bellissima Queen of the south: da qui in poi il jazz si diluisce stemperandosi in colori più tenui, quelli di Average. Tra la sistole di ritorni al jazz più classico, la diastole di respiro e di riempimento più melodico, si procede attraverso i pensieri di This old man per poi arrivare a finire con l’illusione di un inizio alla “Dear Prudence”, cioè alla riassuntiva A kind word, una gentilezza evocata che è quasi un augurio per il futuro. Se si vuole ascoltare il jazz contemporaneo e capire quanto esso sia distante dai modelli del passato questo disco costituisce il tramite ideale. A costo di sembrare blasfemo, spesso preferisco questi suoni a certe stereotipate composizioni mainstream sempre ben suonate, certo, ma che non riescono talvolta a superare un imbarazzante, edipico attaccamento verso i maestri del passato.

Tracklist:
01. Like Those Who Dream 
02. Queen Of The South 
03. Average
04. Rainbow Sign
05. The Rumor
06. Custodian Of The New 
07. This Old Man
08. Binder 
09. A Kind Word