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Jakob Bro | Joe Lovano – Once Around The Room-A Tribute To Paul Motian (ECM Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La coppia Jakob Bro e Joe Lovano si avventura in questo Once Around The Room-A Tribute to Paul Motian con l’intenzione evidente di omaggiare un compagno di viaggio di lungo corso – specialmente per Lovano che suonò continuativamente con lo stesso Motian insieme a Bill Frisell per almeno dieci anni – facendosi aiutare da altri cinque musicisti, due contrabbassisti come Larry Grenadier e Thomas Morgan e in più Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Di quest’ultimo, Off Topic si occupò del suo lavoro Puerta del 2021, se siete interessati potete recuperarlo quiQuesti artisti suonano quasi sempre sovrapponendosi ma senza creare confusioni di sorta, anzi, la sonorità che si ottiene da quest’album pare in complesso tutt’altro che ridondante. Non c’è bisogno che vi ricordi chi era Paul Motian, grandissimo batterista e compositore spentosi nel 2011 a ottant’anni, ma se per caso qualcuno se ne fosse in parte dimenticato vi posso fare tre nomi di pianisti che hanno scritto la Storia del jazz, cioè Bill Evans, Paul Bley e Keith Jarrett. Ebbene, Motian suonò a lungo con questi tre musicisti e fu scelto perchè era un batterista intelligente, che non solo si sapeva integrare perfettamente con loro ma produceva musica a tutti gli effetti, scivolando sui ritmi e rendendo duttile e fluido il suono delle sue percussioni. Il tributo organizzato da Bro e Lovano, non lo nascondo, mi ha in parte sorpreso. A parte i due brani composti da Bro, secondo me i migliori di tutto l’album, molto sentiti e densi di malinconia, gli altri contributi precisamente i primi tre della selezione, vivono di una forma decomposta, spettrale, dove sembra che i sentimenti nostalgici vengano messi volutamente da parte. Sia nel brano iniziale, un’improvvisazione collettiva, sia nelle altre due composizioni a seguire riferite a Lovano, pare che l’oggetto di ricerca debba transitare attraverso un particolare stato psichico, una dimensione medianica della coscienza come se i musicisti cercassero un tramite vibratorio con l’artista scomparso. Più che un vero e proprio tributo sembra una simbolica discesa nell’Ade, almeno nella prima parte dell’album, un girovagare alla ricerca di un’ombra per il bisogno di un vero e proprio contatto mentale con il ricordo di Motian.

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Charles Lloyd – Trios: Chapel (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Charles Lloyd mi fa venire in mente una di quelle erbe tenaci che crescono ai margini delle strade asfaltate. Basta un briciolo di terra libera ed ecco spuntare una forma di vita indomabile, che cerca d’imporre la sua energia nonostante tutti e tutto. Eh sì, perché l’ultraottantenne saxofonista di Memphis esce in questi giorni con un disco in trio, anzi, sarebbe meglio dire con un progetto di tre album, Trio of Trios, ciascuno dei quali suonato appunto in formazione ternaria ma con musicisti sempre differenti. Il primo prodotto in uscita di questa serie s’intitola Trios: Chapel perché registrato live alla Coates Chapel nel campus della Southwest School Of Arts di SanAntonio, nel 2018, giusto un attimo prima della pandemia. Con Lloyd suonano Bill Frisell alla chitarra – già con il maestro di Memphis nel gruppo dei Marvels – e il contrabbassista Thomas Morgan che ricordiamo a fianco del chitarrista in due album registrati dal vivo al Village Vanguard, usciti entrambi per ECM – Small Town (2017) ed Epistrophy (2019). La risonanza acustica del luogo di registrazione, tipica di molti edifici religiosi, non avrebbe sopportato una batteria o comunque un qualsivoglia sistema percussivo d‘accompagnamento. La scelta di un trio drumless èdiventata quindi una motivazione necessaria che in questo caso si è dimostrata oltremodo azzeccata per meglio evidenziare il lavoro dei singoli musicisti, nonché i loro momenti d’insieme. La musica che ne risulta non fa concessioni, è interpretata con rigore ed equilibrio e l’ultima cosa che dobbiamo pensare è quella di ascoltare un intrattenimento disimpegnato di un anziano sassofonista – e anche flautista in questa circostanza – coadiuvato da altri musicisti che lo vogliano omaggiare. Invece, tra cover e riproposte di vecchie composizioni, tra il pubblico che si avverte raramente con qualche applauso – insolita scelta quella di cancellare e sfumare il consenso del pubblico non appena possibile – il concerto si snoda con eleganza e suoni asciutti, seguendo un preciso percorso creativo ed improvvisativo dove scrittura ed estemporaneità s’integrano con naturalezza. Conosciamo bene Lloyd, sappiamo che non è un devastatore di melodie quando approccia materiale non suo ma un meraviglioso re-interprete e in questo caso, accanto a lui c’è Frisell che ha in comune con Lloyd lo stesso atteggiamento di creativo rispetto per la tradizione e per i brani altrui. Il contrabbassista Morgan è un monumento di discrezione, un musicista attualmente richiestissimo impegnato in una continua trama di note febbricitanti per tenere insieme la musica senza lasciare troppi vuoti. A margine, una nota positiva anche per l’ingegnere del suono, che ha saputo ottenere un’ottimale messa a fuoco degli strumenti.

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Ron Miles – Rainbow Sign (Blue Note Records, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Per approcciare Rainbow Sign, cioè l’ultimo lavoro del cornettista Ron Miles, bisogna avere l’accortezza di superare i primi novanta secondi di musica perché questi potrebbero indurci a formulare considerazioni completamente distopiche, almeno fino a quando tre o quattro delicati intermezzi di rullante e piatti non ci aprano la strada facendoci intuire la giusta direzione. Quei primissimi suoni iniziali che sembrano così rarefatti e casuali si organizzano ben presto in un insieme pieno di fascino, dopo aver richiesto al blues e a volte al rock tutti gli stimoli e i guizzi propositivi necessari per intraprendere la giusta strada. In effetti, Miles ha collaborato non solo con colleghi jazzisti ma anche con personalità provenienti dal mondo del rock, come Ginger Baker – chi non si ricorda dei Cream? – e come Joe Henry. Pulsa forte, il cuore di questo lavoro. Se ne avvertono i battiti affiorare sottopelle, se ne intuisce il flusso melodico. Si parla di momenti di grande, raffinata bellezza e di astratta rarefazione armonica.

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