R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Nonostante questo LongGone sia stato accreditato ai quattro musicisti che lo compongono – Redman, Mehldau, McBride, Blade – in realtà si avverte aleggiare, in lungo e in largo, la volontà e lo spirito di Joshua Redman. Fu per merito suo, infatti, che nel 1994 questo quartetto si unì la prima volta per suonare le proprie composizioni in MoodSwing, in cui lo stesso Redman era indicato come unico titolare. Ma venticinque anni dopo i quattro musicisti si sono ritovati per una seconda uscita discografica, RoundAgain (2020) e quella volta, così come ora, l’accredito venne esteso all’intera formazione. Tuttavia non c’è dubbio che l’impronta del sassofonista californiano sia quella più marcata essendo sue le composizioni dell’album ed avendo apparentemente più spazi di manovra all’interno del gruppo rispetto agli altri. Tanto da suggerire l’impressione che tutto venga fatto ruotare, quindi, intorno alla personalità di Redman, anche se nell’ultimo brano dell’album, l’unico registrato live, si può cogliere una maggior convinzione collettiva. Quando si riunisce un supergruppo come questo, generalmente, o ne viene fuori un capolavoro – penso sempre al Kind of Blue di Miles Davis & C. – oppure un lavoro pulito, preciso, ben calibrato come LongGone. Una sorta di verifica dello stato dell’arte e dell’amalgama di un quartetto di amici-musicisti che ha ciascuno, per proprio conto, una lunga scia di successi e soddisfazioni. Ci si può smarrire nelle singole discografie di questi jazzisti, tra titolarità e collaborazioni varie, per cui non c’è alcun dubbio che il livello professionale, tecnico e creativo ottenibile sia più che buono. Tutto bene, quindi? Da un certo punto di vista sicuramente sì, questo è un disco “perfetto”, misurato col bilancino, dove non si avverte una sola sbavatura – e come si potrebbe con questa formazione di stelle? Se però guardiamo le cose da una diversa angolazione potremmo anche rimarcare una certa “freddezza” nell’esecuzione, forse più attenta all’aspetto formale che non al coinvolgimento emotivo. Oltre al sax tenore di Redman suonano, riassumendo, Brad Mehldau al piano, Christian McBride al contrabbasso e Brian Blade alla batteria.

Primo brano dell’album è giustappunto LongGone, all’insegna della tradizione, con un tema che rimanda alle glorie del periodo Blue Note dei ’60, con il sax di Redman diviso tra Coltrane e Shorter. Impeccabile la sezione ritmica durante l’esposizione tematica. Con l’inizio dell’improvvisazione il clima si scioglie maggiormente, il sax diventa maggiormente “redmiano”, Blade si lascia andare un po’ di più soprattutto sui piatti. Mehldau interpreta il ruolo del bopper pianistico e lo svolge in modo impeccabile anche se riesco a percepire poco, nelle note all’interno di questo assolo, qualcosa che mi ricolleghi direttamente alla sua personalità. Molto più in sintonia con sé stesso è Redman che riesce a saltare da un ruolo inizialmente più rappresentativo ad un altro maggiormente consono con il proprio stile. Disco Ears si sviluppa secondo ottiche più contemporanee appoggiandosi ad un veloce beating che dopo il tema s’incanala in una turbinosa corrente d’improvvisazione gestita da un superlativo Redman. Ancora Mehldau a dimostrare, se mai ce ne fosse tutt’ora bisogno, la propria abilità nel creare stringenti fraseggi bebop. Quando il sax riprende il comando delle operazioni la musica pare rallentare un poco ma è solo il preludio al finale del brano. Professionalità massima, ineccepibili gli stacchi, gli assoli e la componente ritmica della coppia McBride-Blade. Statuesque, appesa inizialmente ad una tonica di MI bemolle, è probabilmente il brano più contemporaneo e forse anche il migliore della raccolta. Ci si muove in acque cupe con il sax che soffia appena su un tema elegiaco con un contrappunto di basso all’archetto. Poi compare la batteria di Blade a lavorare essenzialmente di piatti con il piano che segue con radi accordi e il contrabbasso che rientra nel pizzicato. Dopo circa tre minuti l’atmosfera si fa più distesa, non perdendo di vista la direzione pensosa ma acquistando note nervose e spigoli di sax. La costruzione armonica è magistrale ed è tempo finalmente anche per Mehldau di mostrare il suo vero volto in un solismo ricco di tonalità interiori, assai meno standardizzate che nei due brani precedenti. Si chiude riprendendo l’andamento iniziale che mantiene il senso drammatico di un epicedio.

Kite Song comincia con Redman in solitudine ad innescare un tema moderato dall’andamento piuttosto melodico su cui s’innesta prima la ritmica e poi l’assolo di Mehldau. È durante questo intervento di piano che abbiamo la possibilità di apprezzare l’apporto di McBride, molto pastoso ed energico senza essere preponderante. Ricompare il sax che affila il suo intervento al limite dell’astratto, in una aperta dimostrazione di competenza melodico-armonica. Ship to Shore ha il passo lungo di un pezzo che nasce in apparenza più schematico almeno nella struttura d’accompagnamento, rivelandosi quasi un blues sui generis. Blade scandisce la metrica ritmica con maggior decisione, il lessico armonico pare meno elaborato e più “fisico” e finalmente possiamo godere di un assolo di contrabbasso, accompagnato da qualche infiorettatura di piano. Quando Mehladau si fa sentire, la percezione di stare ascoltando una sorta di blues rivisitato per la bisogna, diventa quasi una certezza. Diviene persino più dolce il sax nella seconda parte, la musica sale d’intensità dinamica e lucentezza. Gran brano, dal movimento asciutto, senza fronzoli e con un impasto timbrico viscerale. Infine arriva Rejoice, unica traccia live recuperata dal già nominato MoodSwing e raccolta durante il San Francisco Jazz Festival. Indubitabilmente, il jazz ascoltato dal vivo – come certo rock – diventa un’esperienza diversa da quella provata su disco e per una musica devota al dio dell’improvvisazione come questa sarebbe deprimente ascoltare solo una fotocopia del brano in questione. Ovviamente in questo caso non è così e l’impressione – ne avevo già parlato – è che vi sia una maggior compartecipazione energetica di tutti i musicisti e che vada a farsi benedire, per fortuna, quella sensazione di “distacco” leggermente avverita durante l’ascolto dei precedenti brani. Il sax corre con un po’ di schiuma rabbiosa in più e raccoglie i meritati applausi dal pubblico. Blade può scatenarsi picchiando duro i suoi tamburi – presumo ne avesse già una gran voglia durante i brani registrati in studio – e Mehldau si palesa in un assolo che ad un certo punto vorrebbe persino far diventare modale, con quel grappolo di accordi insistito sulla medesima tonalità ancorati alla tastiera dalla mano sinistra. Quello che ne risulta è un bebop non molto “classico” ma in linea con la sua sensibilità di pianista. Applausi anche per lui. Finale collettivo con scatenamento liberatorio e pubblico che sembra apprezzare.

La gratificazione che procura un album come questo è differita. Occorre superare un certo gap emotivo perché i brani sono certamente tutti belli, compiuti e formalmente ineccepibili. Eppure personalmente non riesco a liberarmi dalla strana sensazione che questa musica sia stata separata dalla sua ombra, come se gli artisti avessero voluto mostrare di sé solo il loro lato più convenzionale che, intendiamoci bene, è già di qualità eccelsa. Forse, conoscendo il percorso dei singoli, non nego che mi sarei aspettato qualcosa di più.

Tracklist:
01. Long Gone
02. Disco Ears
03. Statuesque
04. Kite Song
05. Ship to Shore
06. Rejoice