R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Se uno come Pat Metheny, all’interno del proprio sito web, considera attualmente Dave Stryker tra i migliori chitarristi jazz in circolazione, una ragione plausibile ci dovrà pur essere. Stiamo parlando di un musicista di sessantacinque anni, americano originario del Nebraska, con alle spalle oltre una quarantina di pubblicazioni discografiche sia come titolare che come co-autore e che vanta una serie di collaborazioni illustri con gente come Stanley Turrentine, Andy Laverne, Eliane Elias, Bob Mintzer. Il fatto che abbia molto pubblicato in carriera con l’etichetta danese SteepleChase, specializzata in jazz mainstream di alta classe, suggerisce fino ad un certo punto il contenuto di questo suo ultimo disco, As We Are. In questa uscita, infatti, Stryker si circonda di partner dai nomi risonanti come il contrabbassista John Patitucci, il batterista Brian Blade e il pianista Julian Shore. Non contento, ha anche pensato di aggiungere un quartetto d’archi con i due violini di Sara Caswell e Monica K. Davis, la viola di Benni Von Gutzeit – che viene dal Turtle Island Quartet – e dal violoncello di Marika Huges. È proprio riguardo l’intervento di questo quartetto che si gioca gran parte del progetto musicale di Stryker. Contrariamente a molti casi analoghi in cui gli archi si limitano a un sottofondo di colore – una sorta di scenografia morbida dietro la prima linea strumentale offerta dai jazzisti – in questo caso essi sono stati pienamente integrati nelle composizioni, soprattutto grazie agli arrangiamenti di Shore. Ecco perché lo stesso Stryke non ha esitato a definire questo suo ultimo album come “il disco dei suoi sogni”, avallando direttamente l’ambizione di raggiungere l’acme della sua produzione creativa, cogliendo questa opportunità d’integrare la personalità sonora degli archi con gli strumenti più tradizionalmente utilizzati da un gruppo jazz. La musica che ne consegue è molto omogenea, si sviluppa senza scosse eccessive e tratteggia l’idea progettuale di un discorso uniforme in cui non si tradisce mai una certa morbidezza ambientale, sostenuta anche dalla timbrica” montgomeriana” e vellutata della chitarra. Stryker non è un musicista che ami le iperboli, i suoi assoli sono sempre puliti, niente distorsioni in questo frangente e soprattutto nessuna nevrosi interpretativa, anzi, l’atmosfera resta immersa in un piacevole senso di distensione emotiva. La presenza contemporanea della ritmica affidata a Patitucci e Blade garantisce una ben definita provenienza semantica dalla tradizione americana più classica mentre i violini innestano nella musica il loro passo leggero, quasi immateriale.

Dei nove brani in selezione, sette sono composizioni dello stesso Stryker, uno è frutto della creatività di Shore e l’ultimo viene da un territorio estraneo al jazz, ed è un pezzo di Nick Drake – River Man – tra i più “coverizzati” della sua pur limitata produzione. L’Overture che  apre l’album potrebbe indurre in errore l’ascoltatore più frettoloso, dandogli l’impressione di trovarsi dinnanzi un lavoro esclusivamente cameristico. Sono i quattro archi, infatti, a percorrere questo inizio con un’impronta di “classico moderno” assai lontana dal jazz. Subito dopo è però la volta di Lanes, brano ricco di swing che ha da un lato il prezioso accompagnamento ben strutturato alla batteria di Blade e al contrabbasso di Patitucci e dall’altro gli archi che propongono una linea d’arrangiamento insolita ma perfetta nel suo inserimento, con un inizio quasi da soundtrack – chissà perché mi è venuto alla mente James Bond… Stryke distilla i suoni come fossero gocce di elisir fino ad uno stacco nel momento centrale del brano costruito sulle note basse del piano e sugli appunti percussivi dei tamburi e dei piatti, a cui segue un breve assolo di Shore. Temevo, per la riproposizione di River Man, una di quelle rivisitazioni un po’ pasticciate che fanno rimpiangere l’originale. Gli effetti rumoristici del violino di Sara Caswell con le note di chitarra appoggiate e le pizzicate di contrabbasso lasciano però presto il posto alla costruzione armonica originale del brano con quel suo caratteristico tempo in 5/4 e il drammatico incipit giocato sul passaggio tutto in minore dal I° al V°7 con la 5° bemolle, che è il movimento peculiare a disegnare l’indecifrabile zona d’ombra e di fascino che possiede questo pezzo. Ovviamente non siamo di fronte ad una sua pedissequa imitazione e dopo che la chitarra, con molta misura, ne ha proposto la linea melodica portante, si parte per una bella improvvisazione gestita inizialmente dal violino in assolo con alle spalle il rarefatto accompagnamento della ritmica e del piano, cui segue l’andamento in solitudine della chitarra. Hope è una traccia più spensierata rispetto alla precedente, mettendo in evidenza sia i violini che un assolo di piano sviluppato con il tocco delicato di Shore. La chitarra di Stryke si scioglie maggiormente e va via più veloce, prima che appaia l’assolo di Patitucci a dare  il meglio di sé proprio nella costruzione del materico tappeto di sostegno alla base del brano.

Saudade ci porta tra le braccia di una tranquilla bossa-nova con un suono chitarristico che ricorda George Benson, uno degli ispiratori dello stile di Stryke. Gli archi accarezzano con un gradevole accompagnamento che rende il tutto forse un po’ troppo lounge ma comunque sempre in un clima di grande piacevolezza. Molto bello l’accenno finale tra chitarra e piano a chiudere in un dialogo a due. One thing at a time riprende quota essendo costruita sull’ossatura di un vecchio brano di Wayne Shorter sul quale Shore sovrappone una sua propria melodia. L’inquietudine ritmica rende la musica instabile, a tratti non ben decifrabile nelle sue intenzioni, con gli archi che entrano ed escono partecipando attivamente alla struttura del brano senza limitarsi a rimanere dietro le quinte. Energico l’assolo di Patitucci nella seconda metà con un intermezzo piuttosto astratto e un finale imprevedibile con un’armonia in progressione ascendente ed incalzante, fino all’ondeggiante dinamica terminale. As we were contrasta con il titolo dell’album vergato al presente ed infatti è un brano molto malinconico e pregno di un’indefinibile nostalgia. C’è un preludio d’archi colmo di uno struggente senso della memoria fino al momento in cui uno slow s’impossessa della stesura musicale con la chitarra suonata in punta di dita. Probabilmente la miglior resa ottenuta dalla presenza dello string quartet che altro non fa se non ribadire l’ottimo lavoro di comping di Shore. Dreams are real prosegue in parte in sintonia emotiva col brano precedente ma con toni meno intimisti. L’atmosfera è sempre rilassata ma più jazzy, gli archi proseguono il loro percorso in mezzo alle trame di pianoforte e chitarra con la batteria un poco più incisiva che sospende il suo apporto nel finale, lasciando al contrabbasso e a Stryke il compito di concludere il pezzo tra qualche nota affiorante di violino. Soul Friend è un languido blues che procede senza cattiverie – sempre di blues “bianco”, alfine, si tratta – ma con uno scintillante assolo di violino della Caswell al modo di Grappelli che precede l’intervento di chitarra, pulito come sempre, misurato così come Stryke ci ha abituato per tutta la durata del disco. C’è spazio per un’ultima sortita di Patitucci che suona in questo caso poche note ma incisive e molto notturne. Così si conclude il “disco dei sogni” di Dave Stryker. Un lavoro senz’altro complesso negli arrangiamenti e negli interventi strumentali ma ben fruibile, godibile in leggerezza dall’inizio alla fine che fa venir voglia di ascoltarlo ad libitum.

Tracklist:
01. Overture
02. Lanes
03. River Man
04. Hope
05. Saudade
06. One Thing at a Time
07. As We Were
08. Dreams Are Real
09. Soul Friend