R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mette quasi soggezione parlare di Vijai Iyer. Laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, ha condotto e pubblicato studi sulla psicologia cognitiva che riguardano nello specifico la capacità psico-fisica di comprendere e reagire ai vari linguaggi musicali. Insignito nel 2013 del prestigioso premio “Mc Arthur Genius Grant” che come suggerisce la denominazione non è un riconoscimento dato a chicchessia, Iyer è arrivato, con questo Uneasy, al ventiquattresimo disco da titolare, più una quarantina e passa di collaborazioni, partiture e composizioni sinfoniche di stampo classico ed elettronico eseguite anche da altri musicisti e orchestre sparse nel mondo. Dulcis in fundo, Iyer è un pianista jazz di eccezionale levatura e qui non temo di esagerare affermando che ci si trova di fronte a un vero e proprio genio. Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijai ha cinquant’anni e ha trascorso una vita piena di soddisfazioni professionali colma di premi e riconoscimenti internazionali. Però, in base alla legge dell’ambivalenza che caratterizza l’esistenza umana, una stella che brilla finisce per essere oggetto d’invidia, un disvalore ahimè molto diffuso soprattutto tra quelli che vivono come una dolorosa frustrazione il successo degli altri. Quindi il nostro ha dovuto subire una certa malevolenza non solo da una parte anche importante della critica musicale statunitense ma soprattutto da diversi gruppi di suoi colleghi musicisti. Le accuse? La non conoscenza della tradizione nera americana, l’essere un musicista freddo ed eccessivamente “matematico”, come se il suo corso di studi avesse potuto condizionarlo rigidamente nel suo approccio creativo ed esecutivo. Nessuna di queste critiche rancorose può definirsi azzeccata.

In realtà il pianismo di Iyer è estremamente moderno, quasi sempre tonale, ricchissimo di ogni spunto che provenga sia dalla storia della musica nera americana (in questo disco ascoltiamo molto be-bop) sia da tradizioni asiatiche ed africane. Il punto focale del suo modo di comporre è la sua capacità ibridativa, l’arte di coniugare gli opposti, il sapere interpretare le diversità semantiche dei vari linguaggi musicali contemporanei non facendo mai mancare una grande fantasia creativa. Del resto, per sua stessa ammissione, uno dei suoi modelli di riferimento è stata la coppia Miles Davis-Gil Evans, il sole e la luna, la cultura nera americana e quella bianca “colta” che hanno realizzato, pur provenendo da situazioni opposte, lo straordinario insieme di alcuni capolavori del cool- jazz. Uneasy è un disco ECM realizzato in trio. I suoi compagni di viaggio sono Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, con un lungo curriculum partecipativo e compositivo nella musica classica e nel jazz. Children of Flint è il brano che dà l’avvio all’ascolto. Tutto sembra muoversi all’inizio un po’ in sordina, una sequenza ripetuta due volte di brevi scale e di tranquilli accordi di piano. Poi un assolo di contrabbasso e il sottile, delicato gioco di percussioni, fino a quando irrompono alcuni arpeggi di piano e la scena si accende, s’incrementa il volume della batteria, il brano prende spessore per poi terminare con la medesima sequenza melodica di apertura. Combat breathing ha un piglio più deciso, nelle note iniziali mi sembra di cogliere un vago accenno ad un inno o a qualcosa di corale. Il ritmo si fa più veloce ed incalzante, il piano non dà tregua, l’idea è quella di essere coinvolti in una corsa animata da improvvisi scoppi di veemenza pianistica. Poi però c’è la fase di riposo dove tutto rallenta, solo il contrabbasso resta in evidenza. Iyer si muove in un’atmosfera molto tradizionale, serratamente be-bop, alla faccia di coloro che hanno affermato l’incompatibilità del pianista indo-americano con le radici della musica nera. Poi eccoci al brano che preferisco in assoluto. Si tratta dell’arci noto Night and Day di Cole Porter. Regola numero uno del bravo pianista jazz: non destrutturare mai una melodia famosa sino a renderla irriconoscibile perché è proprio “quella” melodia che l’ascoltatore segue ed insegue tra i diversi arrangiamenti che i musicisti propongono. Magistrale la realizzazione di questo trio, senza sbavature, nessuna esasperazione. Un classico riprodotto nel modo più “naturalmente jazz” possibile, all’insegna di un equilibrio formale come raramente si ascolta in questi casi. Insomma, una goduria.
Touba inizia come fosse un canto tradizionale, con una melodia ripetuta, molto orecchiabile. Sullo sfondo il grande spessore degli altri due musicisti prepara il terreno alla fase improvvisativa pianistica che si concede qualche timido excursus ai bordi della tonalità d’impianto. Sembra quasi che Iyer, ed è qualcosa che si nota lungo tutto il percorso del disco, si trattenga seguendo la precisa volontà di non strafare e di rimanere in un ambito controllato, in una sorta di implicito rigore esecutivo. Poderosa la parte ritmica, brillante e potente come non mai. Poi verso la parte finale torna la melodia iniziale che va attenuandosi via via, fino a spegnersi in un bagliore in lontananza.

Drummer’s song è un pezzo della pianista Geri Allen e bisogna dire che anche qui Iyer rispetta le esigenze della compositrice, spesso caratterizzate da frasi pianistiche serrate e ripetute come in questo caso. Naturalmente l’improvvisazione premia la turbinosa volumetria immaginativa di questo trio che si spende con la solita generosa energia. Augury è uno splendido brano per piano solo dall’impronta decisamente classicheggiante, costruito con arpeggi a due mani, ricco di chiaroscuri quasi impressionisti. Quando arriva Configurations siamo tornati in pieno trio e qui la modalità pianistica di Iyer, con la sua luminosa esuberanza, mi ha ricordato l’estroversione di Petrucciani. Il contrabbasso e la batteria si scavano delle nicchie espressive durante l’allentamento della tensione tastieristica. Notavo, durante l’ascolto di questo brano, come siano mutati profondamente gli assetti del trio piano-basso-batteria rispetto agli anni ’60 dove esisteva, almeno fino ai lavori di Bill Evans, una gerarchia piuttosto rigida tra lo strumento principe – il piano – e la componente ritmica che se ne stava quasi sempre dietro le quinte. Nel trio moderno di questo tipo l’interplay è decisamente più democratico e alle volte si può far fatica a riconoscere lo strumento portante, dato per scontato il dialogo molto più aperto tra le diverse componenti strumentali. Uneasy inizia come altri brani con una melodia semplice, orecchiabile, ripresa dal contrabbasso dopo che è stata introdotta dal piano. Lo sviluppo si allontana progressivamente dalla struttura melodica di base andando a costruire un pieno strumentale di pura improvvisazione che s’appoggia sulla usuale, solida conformazione ritmica. Con Retrofit restiamo nella stessa scia di Uneasy e devo dire che si fatica a differenziare questo brano dal precedente, simile nell’ossatura e nei propositi. Si chiude con Entrustment, infarcito di suggestioni asiatiche, molta melodia cristallina e sequenze di cluster rapidamente arpeggiati con la mano destra, brano raccolto e pregno di una profonda religiosità interiore, quasi una preghiera. Gioco percussivo sul fondo, come se tutto fosse una rappresentazione di un passaggio di nuvole spinte dal vento, con sprazzi di azzurro improvviso. Veramente un grande brano di chiusura. Se cercate un disco di puro jazz contemporaneo questo lo è totalmente. Se inoltre vi appagate del bel suono e della competenza tecnica degli strumentisti questo è il disco che fa per voi. Ma se per caso siete musicisti con tendenza all’invidia vi consiglio di rimanervi lontano: Uneasy potrebbe procurarvi persistenti e fastidiosi bruciori gastrici.

Tracklist:
01. Children of Flint
02. Combat Breathing
03. Night and Day
04. Touba
05. Drummer’s Song
06. Augury
07. Configurations
08. Uneasy
09. Retrofit

10. Entrustment