R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Se mi domandassero di puntualizzare gli aspetti caratteristici di quello che viene comunemente chiamato jazz nordico, sottolineerei almeno tre punti a mio giudizio fondamentali. Beninteso che noi tutti si conosca il fragile valore delle etichette e spesso la loro ambigua significanza, potremmo comunque innanzitutto individuare nel cuore di questa musica una lunghezza d’onda di bassa frequenza, lenta ed ipnotica, vicina all’infrarosso che come un cerchio nell’acqua si allarghi via via lentamente fino a smarrirsi nel proprio elemento. Poi si potrebbe segnalare anche l’andamento delle sonorità, aperte, in dispersione entropica in un ambiente naturale i cui confini sono di per sé difficilmente tracciabili. Per ultimo annotiamo un certo stato della psiche, costantemente meditativo, niente affatto vaporoso ma saldamente ancorato alla “sostanza” degli elementi che costituiscono il paesaggio. Forse non sarà proprio in un modo così schematico ma è indubbio che questa musica, in generale, la si riconosca quasi subito, magari senza identificarne gli autori – compito sempre più difficile data la pletora di musicisti in ogni angolo del mondo – ma individuandone, con un minimo di pratica d’ascolto, almeno gli aspetti principali. Non fanno eccezione in questa circostanza i Bagland – in lingua danese significa retroterra – gruppo jazz creato dal trombettista Jakob Sørensen, giunti al quarto disco con l’ultimo States of Being. Un bel titolo che racchiude in sé non solo gli aspetti riflessivi a cui si accennava poc’anzi ma anche quegli elementi strutturali che costituiscono l’essenza appunto del jazz nordico, così come abbiamo provato a descriverli. Accanto all’uso di strumenti tradizionalmente collaudati all’interno di ogni gruppo jazz troviamo in questo contesto una certa componente elettronica, synth e manipolazioni varie che restano però quasi mimetizzate all’interno dell’organico, come a disegnare marginali framing attorno all’essenza della musica. Sorensen tiene per sé solo la prima composizione dell’album, lasciando agli altri musicisti la responsabilità della maggior parte dei brani, dimostrando così che Bagland non è più il gruppo creato da un solo uomo ma è diventato un sistema eterogeneo, in cui ciascun elemento lavora per il bene comune e non per supportare esclusivamente il bandleader. Come giustamente rileva Mike Gates dalle pagine web di Ukvibe, il suono della tromba di Sorensen non è originalissimo perché ricorda il norvegese Arve Henriksen e i suoi soffi talora un po’ languidi. Del resto il tono di States of Being è naturalmente immerso in un’atmosfera dolce e pensosa, i suoni non si prevaricano l’un l’altro e si riconoscono inseriti in un ampio spazio per far respirare i loro armonici.  

La suggestione viene anche garantita dallo strano incrociarsi dell’elettronica con le chitarre, tra cui anche una pedal steel, che alimentano la sensazione di grandi spazi, a volte equivocando tra una scenografia classicamente nord-europea ed una vagamente desertica di stampo americano. Siamo immersi in un mondo sonoro ricco di sfumature, quindi, ma con immagini visive ben focalizzate, una musica visionaria in cui vale la specularità tra il vuoto di silenzi così evocati ed il pieno di sonorità compassate e sempre sotto controllo. Oltre a Sørensen alla tromba, in questo gruppo agiscono Alex Jønsson alle chitarre, Mathias Jæger al synth, Frederik Sakham sia al contrabbasso che al basso elettrico, Frej Lessner alla batteria e alle percussioni e infine agli archi troviamo Josefine Opsah al violoncello e Anna Jalving al violino.

States of Being, come brano omonimo dell’album, è posto come apripista ed è l’unica traccia composta da Sørensen. Una lenta altalena di accordi, forse organizzati dal synth, rinforzati alle fondamentali dal basso elettrico, è il proscenio su cui appare la tromba del leader, con quella soffice e sognante delicatezza che la distingue, mentre il suono della pedal steel guitar entra ed esce dietro le quinte. Un accorto, discreto intervento della batteria sottolinea l’andamento ritmico del brano, creando una parvenza di movimento in quella che sembra una dimensione estatica, una meditazione senza tempo. Segue Amber Blush, composizione del batterista Lessner che è un insieme di radiazioni luminose di synth, vibrazioni dell’etere cosmico e grappoli di percussioni sottovoce, percorsi dall’onda calda del violoncello. È presente una lunga introduzione prima della comparsa della tromba mentre il ritmo si fa più trafelato mediante uno spedito drive batteristico. Il terzo brano della sequenza riporta un titolo che sulla cover dell’album non corrisponde a quello che ci è arrivato dalle note stampa. Comunque teniamo valida la stampigliatura presente in copertina, cioè We’ve Been Friends For a Long Time Now, dove la tromba irrompe solitaria seguita dalla chitarra che lavora principalmente sulle note delle corde più gravi. Il ramificato gioco percussivo innescato da Lessner – a proposito, anche questo brano è una sua composizione – lenisce la sensazione di tristezza che pervade la musica, peraltro un po’ irrisolta, probabilmente molto più affidata all’improvvisazione che non altro. Kazahana è un termine giapponese che si riferisce alla dispersione di fiocchi di neve soffiati dal vento, creando un’immagine fluttuante che ricorda quella di un’infiorescenza disseminata nell’aria. La voce della tromba acquista delle timbriche, a tratti, quasi umane. Il tema, melodico e cristallino, è di Jaeger e si svolge in una sorta di mormorio descrittivo, giocando molto sull’evocazione delle immagini, quasi cinematografiche. Un sottile, portante tessuto di synth, accompagna il vagabondaggio della tromba. Il bassista Sakham è l’autore di Voyeur, quello che sembra il brano meno nordico della raccolta, con un tema elegante e un po’ di swing – se non altro nelle intenzioni – con la presenza di archi molto melodici che lo sostengono. L’atmosfera si fa così più leggera e urbana.

Larval Motion utilizza il synth con una timbrica vicina agli anni ’70 che in alcuni punti mi ha riportato ai tempi storici dell’utilizzo del moog. Poi il tono cambia, con una serie curiosa di trilli elettronici e di echi che ci trasportano fin quasi ai confini della psichedelia. Lessner, che è anche autore del brano, imposta un insolito e composito ¾ alla batteria che accompagna l’intero pezzo e che contribuisce alla sensazione straniante alfine percepita. Cyro, di Jæger, è un brano molto notturno e lunare, dove gli effetti liquidi e baluginanti del synth aprono la strada ad un sincrono tra il violoncello e la tromba, in cui s’inserisce la chitarra steel accentuando la suggestione chiaroscurale dell’intera struttura. Un pezzo cameristico, raccolto in una dimensione di aggraziata intimità, probabilmente tra i brani migliori dell’album. Lue, che in danese significa “cappello” ma nella nostra lingua ben altro, viene introdotto da qualche rarefatto accordo di chitarra con accanto, finalmente, un bel corposo contrabbasso acustico. Il tema portato dalla tromba si affida alle sue note più gravi, con il synth che lavora melodicamente improvvisando ma spesso andando all’unisono con la stessa tromba di Sørensen. Brano fluido, rilassato e molto gradevole, anche questo scritto da Lessner. Interbeing non è a mio parere all’altezza dei brani precedenti, tanto meno rispetto agli altri scritti proprio da Jæger. Troppo lungo e un poco macchinoso anche se prova comunque ad uscire dallo standard fin qui ascoltato, non riuscendo però a distaccarsi da un certo clima un po’ paludoso. Con Daydreams si torna alla dimensione probabilmente più congeniale al gruppo, cioè a quella grazia errabonda fatta di visioni e di suoni alambiccati con cognizione di causa, questa volta usciti dalla creatività del chitarrista Jønsson, che in realtà si limita qui ad una serie di passaggi arpeggiati su cui la tromba si sofferma nelle sue meditazioni, non prive di qualche accenno malinconico.

Non so se una musica come questa, così raffinata e gentile, potrà essere ascoltata da un numero superiore di persone al di là dei soliti adepti devotamente legati alle suggestioni scandinave. Traspare con gli ascolti ripetuti, al di là delle osservazioni raccolte inizialmente e oltre la bellezza fotografica dei brani, una sorta di lontana amarezza, come se diventasse difficile percepire i lamenti più flebili che sgorgano dal fondo dell’anima. Ci provano, comunque, i musicisti di Sørensen, attraverso la loro interpretazione intensa e soppesata al dettaglio, con le loro macchie di colori chiarissimi e la sobrietà esecutiva che li caratterizza.

Tracklist:
01. States of Being
02. Amber Blush
03. We’ve Been Friends For A Long Time Now
04. Kazahana
05. Voyeur
06. Larval Motion
07. Cryo
08. Lue
09. Interbeing
10. Daydreams

Photo © Nanna Navntoft