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Junius Paul

Brandee Younger – Brand New Life (Impulse!, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono sempre molto contento quando riesco ad ascoltare l’arpa di Brandee Younger. Un po’ perché mi piace il suono dello strumento ma soprattutto per l’indiscutibile perizia di questa musicista, il cui lavoro spesso viene arricchito da collaborazioni tutte sempre importanti e stimolanti e come vedremo abbondantemente presenti anche in questo suo ultimo album, Brand New Life. Ad un immediato e veloce ascolto esplorativo mi pareva di aver trovato questo disco un po’ al di sotto delle mie aspettative, almeno se paragonato al precedente, Somewhere Different, uscito due anni fa sempre per la medesima, iconica etichetta Impulse! [potete trovare questa recensione insieme a maggiori note biografiche sulla Younger giusto qui]. Ulteriori ascolti hanno invece modificato la mia prima, improvvida sensazione e mi sono maggiormente convinto dell’effettiva bontà di Brand New Life. Si tratta di un’opera di elevata qualità a cui però occorre avvicinarsi con una certa arrendevolezza per godere della sua piena amabilità ed esserne così gratificati. Come già suggeriva la stessa Autrice presentando il precedente album, questa musica ha una propria costruzione apparentemente semplice ed un immediato profilo percettivo, ragion per cui si dovrebbe accostarla prendendo atto della sua forma eterea e della novità degli inserimenti contemporanei legati alla cultura hip hop e soul, senza pregiudiziali o fraintendimenti interpretativi. L’album, infatti, è un sentito omaggio ad una pioniera dell’arpa jazz come Dorothy Ashby, morta nel 1986 poco più che cinquantenne. La Younger ripropone dunque alcuni brani di questa grande arpista scomparsa, scegliendo tra quelli editi ed altri mai pubblicati ed infine rielaborandone alcuni secondo una visione più moderna dentro cui rientrano, in controllati flussi sonori, gli stimoli musicali della nostra epoca. Così facendo si mettono direttamente a confronto le linee armoniche della Ashby con le istanze più attuali delle nuove generazioni di musicisti e questo al di là dei generi abitualmente consolidati.

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The Art Ensemble of Chicago – The Sixth Decade: From Paris to Paris (Rogue Art, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

All’Art Ensemble of Chicago mi legano alcune circostanze che potrebbero annoiare il lettore, ma non il sottoscritto e allora mi permetto di ricordarle lo stesso. La prima è che lo straordinario ensemble registrò a Parigi (la mia città dell’anima), il primo disco: A Jackson in Your House. La seconda circostanza è ancora legata a Parigi, poiché il mio primo disco jazz fu proprio A Jackson in Your House e lo acquistai a Parigi nella neonata FNAC, circa dieci anni dopo. È quindi sempre con grande gioia che accolgo una nuova uscita dell’AEOC, anche se, naturalmente, l’ensemble è molto cambiato, non solo nella sua composizione, ma anche nella sua musica. A dire il vero è cambiato in molto, ma non certo nello spirito di ricerca, sempre costante ed indomito. Che lo spirito non sia affatto cambiato lo dice anche il titolo di quest’ultimo lavoro: The Sisth Decade: From Paris to Paris. Due i “sopravvissuti” del vecchio AEOC ovvero i co-fondatori Roscoe Mitchell (sax e flauto) e Famoudou Don Moye (batteria, percussioni e attrezzi vari). Il disco in uscita il 20 gennaio per Rogue Art, via Bandcamp (e anche su vinile in edizione limitata), è il risultato di una registrazione effettuata nel febbraio del 2020 presso la “Maison des Arts” di Créteil, periferia di Parigi, nell’ambito del prestigioso “Festival Sons d’Hiver”. Si tratta di un album doppio per un totale di diciassette brani, dei quali il primo Leola insieme a Odwalla e Funky AECO, appartengono alla produzione originaria dell’AEOC.

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Makaya McCraven – In These Times (XL/Nonesuch/International Anthem, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Credo di averlo ribadito già più volte e proprio qui, sulle pagine di Off Topic, che il jazz di Chicago non è solo il riferimento attualmente più importante negli USA ma è forse una delle proposte più innovative di tutta la musica contemporanea. È chiaro che in questa circostanza la vexata quaestio riguardi il significato letterale del termine ”jazz“ come del resto, l’autore di In These Times, cioè Makaya McCraven, ha così sottolineato:  “Cerco solo di creare la miglior musica possibile e non so neppure se chiamarla jazz…  e forse non è necessario etichettarla in questo modo” (da All About Jazz – 29/01/21). Ma come mai il batterista McCraven si schermisce nell’attribuirsi questo ruolo di jazzista? Non siamo alle soglie di alcun utopismo musicale, McCraven non è un teorico – anche se si fa chiamare “scienziato del ritmo” e definisce la sua musica come “organic beat music” – bensì un musicista che agisce diacronicamente su ciò che suona e non solo per quello che riguarda i consueti approcci improvvisativi. L’azione, in realtà, si prolunga oltre l’incisione musicale in sé. Come già fecero, in passato, Miles Davis con il suo produttore Teo Macero, sui nastri o comunque sulle tracce raccolte vengono operati dei tagli, delle cuciture, degli assemblaggi trasversali tra celle musicali differenti per ottenere una sorta di musica “reinventata”, prolungando il lavoro creativo oltre i limiti della pura performance. Inoltre McCraven accoglie nelle sue composizioni tutto ciò che può apparirgli congeniale, dagli archi ai droni di sottofondo, dai suoni urbani contemporanei dell’hip-hop al dub e ai ritmi jungle, inserti modali, soul music, spiritual jazz… Persino la scelta degli strumenti è estremamente fluida per cui ai tradizionali elementi dei gruppi jazz si aggiungono arpe, flauti traversi, marimbe, sitar, quartetti d’archi ed altro ancora. Pur non essendo originario di Chicago – McCraven è infatti nato in Europa, a Parigi, nel 1983 – qui si è trasferito a 24 anni, dopo una prima residenza nel Massachusetts. Ma è proprio nella Città Ventosa che il batterista franco-americano viene ben presto ad includersi nella scena musicale della città, tesa tra avant-garde e tradizione. Ora, dopo aver pubblicato il suo primissimo disco da titolare nel 2012 – Split Decision – e dopo una serie di interessanti uscite tra cui l’ultimo, acclamatissimo Deciphering The Message dell’anno scorso, McCraven propone un album con undici tracce, registrate in cinque studi differenti e in quattro performance dal vivo.
Questo lavoro ha richiesto una preparazione durata circa sette anni, avvenuta tra l’altro in contemporaneo allestimento di tutte le altre pubblicazioni, a cominciare da In The Moment del 2015. Sembra proprio che In These Times si sia voluto rappresentare una sorta di sintesi complessiva dell’estetica musicale di McCraven, quasi a tirar le fila di un discorso iniziato diversi anni fa e mai portato definitivamente al suo compendio. L’Autore viene accompagnato da una quindicina di elementi, tra cui qualche nostra vecchia conoscenza come Brandee Younger – una recensione la trovate quiJoel Ross – anche lui è recensito quiGregg Spero – potreste dare un’altra occhiata quied una serie di altri validi musicisti che elencherò alla fine della recensione.

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