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Kahil El’Zabar

Kahil El’Zabar and Ethnic Heritage Ensemble – Spirit Gatherer • Tribute to Don Cherry (Spiritmuse Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi piacerebbe poter convincere anche i più scettici che gli Ethnic Heritage Ensemble di Kahil El’Zabar sono qualcosa di più di un gruppo che sembra dilettarsi in una sorta di bricolage esoterico. L’idea di essere guaritori dell’anima, sia che provenga dalla permeabile città di Chicago – come in questo caso – che direttamente dall’Africa come accade per Nduduzo Makhathini – vedi recensioni qui e quiè un concetto affascinante di per sé, anche se mi rendo perfettamente conto che possa innescare inevitabili scetticismi. L’aspetto primitivo di questa musica, contenuta in Spirit Gatherer • Tribute to Don Cherry, la sua forma così insolita, piena di incavi misteriosi, profilata con elementi di tribalismo, alle volte sgraziata ed oscura, trova tuttavia la sua ragion d’essere nel radicarsi in profondità nell’humus del jazz. Naturalmente riconoscendo a questo termine la sua essenza primordiale nera, prima di diventare sinonimo più universalizzato di una certa parte della musica contemporanea. Non ci sono frivolezze tra queste note né tanto meno una ricerca estetica conformista. Con un potere di seduzione commerciale vicino allo zero, un minutaggio complessivo di poco sotto il limite delle possibilità contenitive di un Cd, quello che luccica nel cavernoso spleen di El’Zabar, è una potenza arcana, capace di minacciose esuberanze e di occulti sortilegi, affascinanti come la danza di una fiamma notturna. Il titolo dell’album fa riferimento ad una sorta di connessione tra spiriti ancestrali in grado di trasmettere influssi benefici ad altre entità, anch’esse spirituali, che siano in grado di raccoglierli. Le architravi ritmiche, lente ed ipnotiche, disvelano non solo l’originale vena compositiva dell’Autore ma anche la volontà di rivisitare i fiori selvatici di Don Cherry – a cui questo album è dedicato – di Ornette Coleman, di Thelonious Monk, di John Coltrane e Pharoah Sanders, non per caso degli autentici numi tutelari del jazz più autenticamente black.

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NovaraJazz Weekender – Fall Edition @ Spazio Nòva, Novara – 12 e 13.11.22

A P P U N T I  D A  N O V A R A J A Z Z


Articolo di Mario Grella

Nj Weekender Fall Edition è la “due giorni” autunnale di NovaraJazz che si è tenuta sabato e domenica scorsi presso lo Spazio Nòva, ricavato all’interno della gigantesca ex Caserma Passalacqua nel cuore della città e abbandonata da anni al suo destino. Nòva, una volta si sarebbe chiamato “centro sociale” e del centro sociale ha tutte o quasi le caratteristiche: laboratori, biblioteca, spazi per incontri, dibattiti, proiezioni e concerti, piccolo punto ristoro. Manca forse solo la politica, almeno quella tradizionalmente intesa, poi c’è tutto (persino un posteggio a pagamento, questo magari non in stile col centro sociale anni Settanta-Ottanta). Ed è qui che Mr. Corrado Beldì, Mr. Riccardo Cigolotti ed anche Mr. Enrico Bettinello, stanno cercando di compiere il miracolo, ovvero quello di smuovere i giovani trascinandoli verso qualcosa che non sia solo lo spritz o i riti, un po’ ritriti della movida. E così eccoci qui, a quasi sessantacinque anni, in piedi (i concerti nei centri sociali et similia, si seguono rigorosamente in piedi e con una birra in mano, come mi ha rammentato più d’una persona dello staff), ad ascoltare un programma di gran qualità che comprende brevi concerti alternati a dj set di grande impatto per il pubblico più giovane che si alternano nelle due sale che permettono, grazie alla doppio allestimento, un veloce alternarsi dei musicisti e gruppi. Questo è il format di NJ Weekender Fall Edition (che lascia presumere anche una edizione primaverile o estiva…)

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Kahil El’Zabar Quartet – A Time For Healing (Spiritmuse Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Ci sono jazzisti che non sono affatto musicisti “in purezza”, ma sono qualcosa di diverso e, oserei dire, sono qualcosa di più. E sono come possono esserlo certi artisti, che non sono “solo” grandi, ma sono artisti “veri”. Si potrebbe dire che la differenza è data dal fatto che negli artisti veri, l’arte non si ferma al modo di creare o al manufatto creato, ma va oltre, investe cioè i comportamenti, le convinzioni, la vita dell’artista stesso. Certamente tutto ciò calza a pennello per Kahil El’Zabar, multipercussionista, compositore, voce, ma anche educatore “filosofo” e divulgatore della musica nera. Se poi attorno ad un musicista-percussionista-sciamano come lui, si mettono a suonare Justin Dillard, mago della tastiera, Corey Wilkes, spirito della tromba, Isaiah Collier sacerdote del sax soprano, allora la magia può avere inizio, musicisti tutti “made in Chicago, Illinois”. Una magia che serve a guarire come suggerisce il titolo di questo magnifico disco A Time of Healing, le nostre anime dolenti, in un mondo che riserva sempre meno spazio all’anima non comprendendo di non poterne farne a meno.

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Kahil El’Zabar ft. David Murray – Spirit Groove (Spiritmuse Records, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Diciamo la verità: “groove” e spiritualità sono come mele e pere, che come diceva la mia maestra delle elementari, non si possono sommare. E allora l’impresa di Kahil El’Zabar, grandissimo percussionista e uno dei più celebrati sassofonisti al mondo David Murray, appare ancor più meritoria. Completa la formazione del favoloso Spirit Groove, pubblicato da Spiritmuse Records, Emma Dayhuff al basso acustico e Justin Dillard a synth, piano e organo. Che l’esperimento non solo sia riuscito, ma sia entusiasmante, lo si capisce subito dopo le prime, quasi sommesse, percussioni di In my House che apre l’album: quasi un carillon, accompagnato da un tamburello, e dallo stentato mugulare di Kahil, una specie di preghiera laica e “distonica”, a cavallo tra uno spiritual e un blues, con il sax di Murray che sembra bastare a se stesso.

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