R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi piacerebbe poter convincere anche i più scettici che gli Ethnic Heritage Ensemble di Kahil El’Zabar sono qualcosa di più di un gruppo che sembra dilettarsi in una sorta di bricolage esoterico. L’idea di essere guaritori dell’anima, sia che provenga dalla permeabile città di Chicago – come in questo caso – che direttamente dall’Africa come accade per Nduduzo Makhathini – vedi recensioni qui e quiè un concetto affascinante di per sé, anche se mi rendo perfettamente conto che possa innescare inevitabili scetticismi. L’aspetto primitivo di questa musica, contenuta in Spirit Gatherer • Tribute to Don Cherry, la sua forma così insolita, piena di incavi misteriosi, profilata con elementi di tribalismo, alle volte sgraziata ed oscura, trova tuttavia la sua ragion d’essere nel radicarsi in profondità nell’humus del jazz. Naturalmente riconoscendo a questo termine la sua essenza primordiale nera, prima di diventare sinonimo più universalizzato di una certa parte della musica contemporanea. Non ci sono frivolezze tra queste note né tanto meno una ricerca estetica conformista. Con un potere di seduzione commerciale vicino allo zero, un minutaggio complessivo di poco sotto il limite delle possibilità contenitive di un Cd, quello che luccica nel cavernoso spleen di El’Zabar, è una potenza arcana, capace di minacciose esuberanze e di occulti sortilegi, affascinanti come la danza di una fiamma notturna. Il titolo dell’album fa riferimento ad una sorta di connessione tra spiriti ancestrali in grado di trasmettere influssi benefici ad altre entità, anch’esse spirituali, che siano in grado di raccoglierli. Le architravi ritmiche, lente ed ipnotiche, disvelano non solo l’originale vena compositiva dell’Autore ma anche la volontà di rivisitare i fiori selvatici di Don Cherry – a cui questo album è dedicato – di Ornette Coleman, di Thelonious Monk, di John Coltrane e Pharoah Sanders, non per caso degli autentici numi tutelari del jazz più autenticamente black.

Ma c’è di più. L’appellativo di spiritual jazz abbinato con una certa cognizione di causa a questa musica, si giustifica attraverso una certa mimesi esecutiva rituale, alle volte infarcita di giagulatorie e formule discorsive scomposte dall’aspetto sciamanico, altre volte da strabordanti e dolorosi spiritual, quasi lunghe e talora sgangherate preghiere rivolte a divinità sconosciute. Come si svolge, tecnicamente, questa musica? Per poter suggestionare l’attenzione e la coscienza dell’ascoltatore si scelgono ovviamente, in maniera quasi esclusiva, delle composizioni modali che si distendono su un’unica scala musicale, usufruendo spesso degli accordi propri di quella scala specifica, senza l’aiuto di dominanti secondarie e frequentemente selezionando un solo, unico accordo di bordone. Questo può favorire l’effetto trance nell’ascoltatore, non costretto a seguire mentalmente i cambi continui e le discontinuità dei salti di tono. Ricordo – credo fossero ancora i tardi anni ’70 – che in un concerto live all’Università Statale di Milano, lo stesso Don Cherry ispiratore di questo album, si esibì mescolando classici strumenti a fiato di tradizione jazzistica con sitar e tanpura appartenenti alla cultura dell’India, insistendo proprio sul fattore modale e innescando un coinvolgimento empatico che è lo stesso presente in questo disco di El’Zabar. Per avere poi maggiori informazioni sulla personalità di questo autore vi rimando a due precedenti recensioni che trovate su Off Topic qui e qui. Ci basta comunque sapere che El’Zabar è un polistrumentista, dedito maggiormente alle percussioni. Ha sessantanove anni ed è nato a Chicago. Per un decennio è stato presidente dell’AACM, a cavallo tra la seconda metà dei ’70 e la prima parte degli ’80. Ora lo ritroviamo principalmente in sella a due gruppi come il presente Ethnic Hermitage Ensemble e Ritual Trio ma dietro di sé ha disseminato fino ad ora circa una quarantina di dischi, sia da titolare, che in gruppi e formazioni varie. La band che in questo caso l’accompagna, gli E.H E., è costituita, oltre che dallo stesso El’Zabar alla batteria, alle varie percussioni, alla kalimba e agli interventi vocali, da Corey Wilkes alla tromba – con El’Zabar dal 2007 – alle percussioni e alle spirit bowls (una sorta di campane tibetane), da Alex Harding al sax baritono, Dwight Trible alla voce – è il cantante dei Pan Afrikans Peoples Arkestra di Los Angeles – e dal figlio maggiore di Don Cherry, David Ornette Cherry al piano, alla melodica e alle tastiere, quest’ultimo purtroppo deceduto improvvisamente l’anno scorso. Notiamo che manca il contrabbasso, particolare non di poco conto per qualsiasi formazione jazz, ma evidentemente non di così vitale importanza per El’Zabar & C.

Quando parte il primo brano della selezione, Don Cherry, capiamo subito che ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso e di più arcaico, rispetto a ciò che siamo mediamente portati ad ascoltare. Il pezzo è infatti una semplice invocazione – non un’evocazione!! – di uno degli importanti riferimenti umani e musicali di questo gruppo. Mentre la voce recitante di Trible ripete ad libitum il nome di Don Cherry, le percussioni dell’Autore e la tromba di Wilkes che sembra spesso sul punto di sciogliersi e disperdersi in un ultimo rivolo di fiato, accompagnano come una miscela aromatica il mantra reiterato del celebre cornettista, quasi assurgesse simbolicamente a custode d’un rito iniziatico. Una volta stabilite le misure essenziali di come la cerimonia possa procedere, si passa a Lonely Woman, brano scritto da Ornette Coleman nel 1959 ed inserito in quella pietra miliare del free che fu The Shape of Jazz To Come, dove per la cronaca era presente anche Don Cherry e la sua cornetta. La traccia qui proposta è molto rispettosa dell’originale, nonostante il ritmo appaia leggermente più rallentato e meditato. Il suono della tromba è quanto di più spettrale si possa ascoltare dai tempi di Miles Davis e il sax sembra evocare lo spirito di Ayler, in quel suo disperato trascinarsi da una frase all’altra. Trible intona uno spiritual che parla della solitudine di una donna anziana, sofferente e in povertà. Il recitativo non è stato appositamente aggiunto in quest’occasione perché pur mancando nel brano originale di Coleman, probabilmente si è sviluppato sul testo creato da Margo Guryan nel 1961 e adattato alla composizione strumentale. Mentre i fiati proseguono impostando dei brevi e lancinanti assoli, la batteria viaggia continua su un tempo dispari e il pianoforte ruota con accordi spesso in rivolto attorno alla costante tonalità di Re minore. Il brano è molto suggestivo, vuoi per la struggenza del canto ma anche per l’abilità strumentale nel creare una specie di camera di risonanza emotiva lungo tutto il tracciato del pezzo. Con Evocation andiamo oltre l’invocazione rituale del brano di apertura, perché in teoria questo titolo avrebbe dovuto richiamare a sé gli spiriti di guarigione. Non so se questa manovra abbia effettivamente funzionato o meno ma quasi inaspettatamente questo pezzo è quello che pare più in linea con una normale struttura jazzistica, sia per il ritmo spigoloso e quasi swingante sostenuto dalla batteria di El’Zabar sia per l’incrociarsi dei due fiati che si avvolgono reciprocamente attorno ad un tema reiterato. Degi-Degi è creatura di Don Cherry e proviene da uno dei suoi album più belli, a mio parere, Brown Rice del 1975. Un’introduzione pianistica di memoria quasi classica, in Mib minore prelude poi al tema portante della composizione originale, che qui scorre molto più lentamente e meno freneticamente. La musica si svolge attorno alla struttura ostinata continuamente ribadita dal piano, mentre Trible apre il libro dei suoi magici formulari e parte per un mondo tutto personale dove sicuramente incontrerà i suoi agatodemoni a dargli benedizioni. Sfugge a questo schema ritualistico la tromba di Wilkes, più che il sax, che dimostra una febbre interiore feroce, in certi momenti pare persino belligerante, nella sua ricerca di una dimensione autonoma – ma la cornetta dell’originale di Cherry non era veramente da meno…

Sketches Of a Love Supreme si fa subito riconoscere per quelle quattro note che si susseguono ostinate, due intervalli reiterati di terza minore e di quarta giusta, un vero e proprio propellente coltraniano. Spiritual in tutte le sue forme con l’intensa interpretazione a metà tra il canto e il recitativo. Un buon motivo, dal punto di vista musicale, per ascoltare la gamma di possibilità dei due fiati. Inutile dire che il compito più difficile spetta al baritono di Harding che comunque vada, azzecca in pieno il clima di questo brano intriso di profonda religiosità. Molto discreto ed efficace nella punteggiatura degli accordi è il piano, per poi scivolare con tutti gli altri strumenti nella breve sequenza strumentale dissociata del finale. Bop On proviene direttamente dalla scrittura di El’Zabar. Un tappeto percussivo ospita grumi musicali piuttosto free nello sviluppo ma originariamente ben distinguibili nella loro forma. Anche in questo caso, come per Evocation, si respira un’aria più jazzata, più occidentale rispetto alla presenza costante degli ancestors. Non sempre però l’improvvisazione si regge da sola, dalla seconda metà in poi diventa un po’ raffazzonata e poco interessante. Delude anche il piano di D.O. Cherry. Con Holy Man si rientra pienamente nel rito prima interrotto, con il ritmo ossessivo delle percussioni e le urla sciamaniche di El’Zabar, abbondantemente posseduto da chissà quale spiritaccio molesto. Il modo in cui viene condotto questo brano è però musicalmente poco incisivo, preferendo sottolineare un aspetto collettivo di stampo quasi cerimoniale, basato sullo stato di trance indotto dal ritmo e dalle orazioni, piuttosto che riferirsi ad una vera e propria struttura musicale. Inconfondibili, invece, le note monkiane di Well You Needn’t, un brano strafamoso che fu inciso per la prima volta dal Thelonious Monk Trio nel 1947. Sorprendentemente – ma forse non così tanto – in questa traccia degli E.H.E. manca il piano, lo strumento proprio di Monk. Sono i fiati che si appropriano del famoso tema, e sempre loro si alternano in due begli assoli che non fanno rimpiangere l’assenza della tastiera. Dalla seconda metà del brano parte una lunga tiritera vocale, credo di El’Zabar, che s’intercala quando va bene col sax, altrimenti, procedendo da sola con le percussioni di sottofondo, risulta essere un po’ monotona anche se a tratti, con quei suoi suoni gutturali, diventa persino divertente. Ma ora arriva il brano migliore di tutta la raccolta. The Opening è veramente il punto di passaggio, la traduzione verso un altro mondo. Percussioni a sonaglio, quasi una ghost dance con la tromba che mantiene uno stupore primordiale davanti al mistero dell’indicibile. Il sax a far da contrappunto, la kalimba che sillaba una parola per volta e il canto raggelante di Trible – “there’s an opening” che all’improvviso comunica al mondo di aver trovato quel passaggio. Un recesso segreto verso una dimensione che ci solleva in aria, senza quasi più peso né materia. Bellissimo. Segue poi Harvest Time di Pharoah Sanders, che proviene dall’album Pharoah del 1977. Però qui non c’è paragone. L’originale brano di Sanders, oltre venti minuti di jazz d’altissima scuola, non riesce ad essere replicato con un abito d’eleganza affine. Inoltre il cantato aggiunto, lo dico senza remore, è a tratti realmente fastidioso. Passo volentieri oltre all’ultima traccia dell’album, una composizione di El’Zabar, Spirit Gatherer, che intitola il disco. E qui si respira un’altra aria. Il rito è apparentemente al suo clou, il punto del transire è stato scoperto e raggiunto e per festeggiare si torna alla pratica del jazz, attraverso il continuo chiamare di Trible, finalmente con un canto quasi soul e ben riconoscibile, che invita definitivamente gli ancestrali spiriti benigni a raccolta. Una base relativamente semplice e ripetuta ad libitum, di quelle che acchiappano da subito, dove però gli eroi sono i due fiati che si lanciano in coppia e/o in solitudine sulla base di un regolare 4/4 mentre il piano ribadisce i due accordi di base. Abbiamo l’occasione di cogliere la piena, gioiosa fioritura della squillante tromba di Wilkes, mentre il sax inizialmente fa le veci del basso mancante per poi lanciarsi in un liberatorio assolo. In alcuni momenti sembra di ascoltare qualche vecchio blues elettrico alla Muddy Waters e del resto, qui a Chicago, si era anche a casa sua.

Certo, le parti strumentali possono sembrare un po’ eccentriche e quest’idea di essere dei musicisti e dei guaritori può forse farci sorridere. Ma qui non si trattano esotismi a buon mercato, né si gioca con vasellinate strumentali che non possono non piacere. Si scende, invece, nel pozzo profondo della coscienza, cercando di superarne i limiti visibili. Non un atto scapestrato di hybrs, mal’autentico bisogno di riconnessione con le proprie radici. El’Zabar non ci chiede lo sguardo critico dell’etnologo ma ci invita alla partecipazione tra un insufflare di fiati, cantilene apotropaiche e percussioni parcellizzate, offrendo anche a noi la possibilità, magari solo per un attimo, di gettar l’occhio oltre l’Opening da lui stesso probabilmente scoperto.

Tracklist:
01. Don Cherry (5:56)
02. Lonely Woman (9:15)
03. Evocation (3:38)
04. Degi – Degi (8:07)
05. Sketches of a Love Supreme (6:42)
06. Bop On (5:14)
07. Holy Man (4:57)
08. Well You Needn’t (6:15)
09. The Opening (7:33)
10. Harvest Time (7:28)
11. Spirit Gatherer (10:32)

Photo © Emanuele Meschini (NovaraJazz), Dimitris Pappad