R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Per Nduduzo Makhathini la musica è certamente molto di più di un hobby, ma anche molto di più di un mestiere. Sudafricano di nascita, è cresciuto nella cultura “Zulu”, dove la musica non era certamente un passatempo, ma elemento taumaturgico. Bisogna partire da qui, ma arrivare molto oltre, per comprendere le sue composizioni. Insieme a questa origine mistico-culturale indigena, la sua è una musica che si sposa con le influenze tradizionali della chiesa cristiana. A tutto questo si aggiungano  le forti influenze del jazz sudafricano (Bheki Mseleku, Moses Taiwa Molelekwa, Abdullah Ibrahim), ma non basta ancora, poiché nei suoi orizzonti sono presenti anche John Coltrane e McCoy Tyner e tanto altro jazz statunitense. 

photocredit: Ezra Makgope

Oltre ad una intensa attività di ricercatore ed educatore, Makhathini è anche capo dipartimento della Fort Care University dell’Eastern Cape di Città del Capo e tutto ciò fa comprendere che siamo in presenza di un musicista davvero completo. Nel 2019 ha fatto il suo debutto al Blue Note di NYC, ed è stato altresì ospite di Wynton Marsalis e della Licoln Center Orchestra sempre a New York, al suo attivo otto album e numerosi premi. Cose che andavano ricordate, poiché molto spesso si tende a dimenticare, o a mostrare scarsa attenzione, a background che invece contano molto per riuscire a collocare musica e musicista in un contesto meno vago ed aleatorio. Letters from Underworlds è il suo ultimo lavoro e quando si incomincia ad ascoltare Yehlisan’uMoya, primo brano dell’album, tutti questi riferimenti tornano utili a comprendere la complessità del musicista, con una voce intensamente africana, quella di Omagugu, moglie di Makahthini, che si sposa amabilmente con un sax tutto “coltraniano”. E cosa dire dell’attacco di piano di Saziwa Nguwe, dove sembrano riecheggiare le sonorità di “Nkosi Sikelel’ iAfrica”, l’inno nazionale sudafricano? É in questa apparente semplicità e in questa straordinaria stratificazione che si può percepire la grandezza di questo sorprendente e profondo artista.

Ancora il piano e il sax giganteggiano in Shine, brano che sembra lontano anni luce dai ritmi tribali, eppure tanto vicino alla spiritualità del continente africano, evocativo come poche cose lo sanno essere, ma dove i “credits” verso Coltrane, McCoy Tiner e il jazz americano, sembrano più evidenti. E’ fuori di dubbio che il jazz sudafricano abbia una sua propria fisionomia, che si rivela quasi d’incanto ascoltando Emaphusheni dove, dopo un “intro” del piano di Makhathini, ecco il bel fraseggio di sax di Logan Richardson, e con la voce dello stesso Makhathini in lingua locale a chiudere il pezzo con un, ormai inconsueto, sfumato. E poi ancora un afro-jazz che torna appena sussurrato attraverso le percussioni iniziali di Gontse Makhene, in  Umyalez’oPhuthumayo con in bella evidenza la tromba di Ndabo Zulu, il  contrabbasso di Zwelakhe-Duma Bell Le Pere, la batteria di Ayanda Sikade e il sax tenore di Linda Sikhakhane. Un disco destinato a restare nella mente e nel cuore, originale e profondo, che raccoglie tante eredità, ma dal quale sembra uscire un suono nuovo e antico allo stesso tempo, saldamente ancorato al jazz africano e sudafricano in particolare.

Tracklist:
01. Yehlisan’uMoya
02. Saziwa Nguwe
03. Beneath The Earth
04. Unyazi
05. Isithunywa
06. Umlotha
07. Shine
08. One The Other Side
09. Umyalez’oPhuthumayo
10. Indawu
11. Emaphusheni

 

 

 

 

 

 

 

 

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