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Marius Neset

Marius Neset – Happy (ACT Music, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono trascorse poche settimane da quando Off Topic si è occupata dell’ultimo lavoro di Arild Andersen Group, Affirmation – la recensione potete trovarla qui. Qualcuno probabilmente si ricorderà che uno dei collaboratori di Andersen nel disco sopra citato è un giovane sassofonista trentasettenne norvegese – anche se vive da tempo in Danimarca – Marius Neset, di cui oggi ci occupiamo riguardo l’ultimo album da lui realizzato con il sintetico titolo Happy. Neset è arrivato al nono disco come titolare, decimo se consideriamo anche Suite for the Seven Mountains pubblicato insieme al gruppo People Are Machines peraltro fondato dallo stesso sassofonista. In aggiunta vanno rimarcati gli affiancamenti, oltre che ad Andersen, anche a Lars Danielsson – Sun Blowing (2016) – e Daniel Herskedal – Neck of the Woods (2012), senza dimenticare numerose altre collaborazioni sostenute durante la propria attività live. Nella recensione di Andersen si era parlato in termini piuttosto elogiativi di Neset, collocandolo, riguardo i suoi specifici riferimenti musicali, tra Michael Brecker e Jan Garbarek. Anche se penso di poter confermare, almeno parzialmente, quanto detto in quel commento, debbo comunque aggiungere che il nostro giovane sassofonista non segue integralmente l’ipse dixit di quei maestri, dimostrando un eclettico ventaglio d’influenze che rimarcheremo strada facendo ma anche, naturalmente, riuscendo a focalizzare qualcosa in più del suo profilo personale. Infatti Neset ha dimostrato di saper indossare abiti solistici ma anche orchestrali e classici, come hanno evidenziato i lavori di scrittura per la London Sinfonietta – Snowmelt (2016) – e la Bergen Filarmonica – Manmade (2022). Il titolo dell’album, Happy, suggerisce un particolare atteggiamento verso ciò che Neset mi sembra possa considerare come sinonimo di felicità, cioè quella libertà che gli rende possibile attraversare stili e stati d’animo mutevoli e quindi aggirarsi in una sorta di paese delle meraviglie, cioè in un territorio musicalmente illimitato, esplorando tutte o quasi le possibilità che gli si presentano. Quindi, transitando tra jazz – con qualche momentaneo inserto free – e fusion, funk, soul e qualcosa di pop-rock, Neset si concede una dimensione escapista dal pensiero omologante proprio in virtù di questa sua forte curiosità e attrazione nei riguardi di forme musicali lontane dal jazz. Il suo sassofono possiede una voce timbricamente flessibile, piena di colore, accompagnata dalla tecnica ineccepibile dei suoi collaboratori per mezzo dei quali i brani presenti in Happy si sfrangiano in mille rivoli e si ricompongono in una congerie di ondosi flussi unitari di musica. Il tono di base rilascia un certo profumo di ottimismo, oltre a diventare a tratti sonicamente imprevedibile e piacevolmente cangiante. Accanto al sassofono tenore e soprano di Neset suonano Elliot Galvin, molto efficace alle tastiere, Manus Hjorth al piano, Conor Chaplin al basso elettrico, Anton Eger alla batteria ed alle percussioni.

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Arild Andersen Group – Affirmation (ECM records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono sempre un po’ sulle mie quando approccio un disco come questo Affirmation di Arild Andersen Group, lavoro quasi totalmente improvvisato. D’accordo che la stessa improvvisazione è l’anima del jazz e nella Storia della musica saper creare una struttura melodico-armonica estemporanea col proprio strumento è divenuta una pratica assodata attraverso gli anni. Ma non c’è dubbio che applicare questa metodica ad un tema scritto, occupandosi del suo sviluppo e veicolandone spunti ed invenzioni partendo da una partitura data, è cosa ben diversa che impostare l’improvvisazione ex novo, fidandosi delle sola ispirazione del momento e dell’abilità tecnica del musicista. Alle volte, infatti, l’idea si consuma presto trasformandosi in una deriva di senso e di suono. Un lavoro come questo, invece, sfugge ad ogni critica negativa perché la musica che ne risulta mantiene un significato melodico, istintivo ma anche costruttivo ed è una delle rare occasioni in cui il “gioco” dei musicisti non diverte solo chi suona ma coinvolge l’ascoltatore che si sente così partecipato, avvolto in una sorta di magico involucro emotivo. L’oggetto sonoro non è un feticcio a cui aggrapparsi ma si trasforma in un moto dinamico, un’elegia condivisibile dotata di una solida coerenza strutturale e poetica. Ovviamente non tutti i momenti improvvisati hanno le stesso peso, alle volte ci si smarrisce momentaneamente, l’umore talora segue un clinamen poco prevedibile ma quel che resta di valido è la constatazione che l’idea e il pensiero precedano l’azione e che la comprensione delle intenzioni tra i musicisti anticipi il prodotto sonoro. In questo disco del contrabbassista norvegese Andersen, beniamino dell’ECM – ha inciso come leader e co-leader per questa etichetta almeno una quindicina di dischi – l’interplay è quindi conseguente ad una comunicazione empatica, non lo si acquisisce solamente ascoltando suonare gli altri ma quasi entrando in contatto telepatico con ognuno dei componenti, addirittura prima che il loro strumento cominci a cantare.
Arild Andersen, nei suoi settantasette anni di vita, si è fatto inizialmente le ossa nello Jan Garbarek Quartet per più di un quinquennio ed il suo primo disco da titolare risale al 1975, Clouds In My Hand, guardacaso pubblicato sempre da ECM. I musicisti che lo accompagnano in questa esperienza sono tutti molto più giovani ed appartengono addirittura a due generazioni successive. Si tratta del pianista quarantasettenne Helge Lien, del coetaneo Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. La sequenza dei brani è suddivisa in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II – a cui segue l’ultima traccia, l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, Short Story.

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