R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono sempre un po’ sulle mie quando approccio un disco come questo Affirmation di Arild Andersen Group, lavoro quasi totalmente improvvisato. D’accordo che la stessa improvvisazione è l’anima del jazz e nella Storia della musica saper creare una struttura melodico-armonica estemporanea col proprio strumento è divenuta una pratica assodata attraverso gli anni. Ma non c’è dubbio che applicare questa metodica ad un tema scritto, occupandosi del suo sviluppo e veicolandone spunti ed invenzioni partendo da una partitura data, è cosa ben diversa che impostare l’improvvisazione ex novo, fidandosi delle sola ispirazione del momento e dell’abilità tecnica del musicista. Alle volte, infatti, l’idea si consuma presto trasformandosi in una deriva di senso e di suono. Un lavoro come questo, invece, sfugge ad ogni critica negativa perché la musica che ne risulta mantiene un significato melodico, istintivo ma anche costruttivo ed è una delle rare occasioni in cui il “gioco” dei musicisti non diverte solo chi suona ma coinvolge l’ascoltatore che si sente così partecipato, avvolto in una sorta di magico involucro emotivo. L’oggetto sonoro non è un feticcio a cui aggrapparsi ma si trasforma in un moto dinamico, un’elegia condivisibile dotata di una solida coerenza strutturale e poetica. Ovviamente non tutti i momenti improvvisati hanno le stesso peso, alle volte ci si smarrisce momentaneamente, l’umore talora segue un clinamen poco prevedibile ma quel che resta di valido è la constatazione che l’idea e il pensiero precedano l’azione e che la comprensione delle intenzioni tra i musicisti anticipi il prodotto sonoro. In questo disco del contrabbassista norvegese Andersen, beniamino dell’ECM – ha inciso come leader e co-leader per questa etichetta almeno una quindicina di dischi – l’interplay è quindi conseguente ad una comunicazione empatica, non lo si acquisisce solamente ascoltando suonare gli altri ma quasi entrando in contatto telepatico con ognuno dei componenti, addirittura prima che il loro strumento cominci a cantare.
Arild Andersen, nei suoi settantasette anni di vita, si è fatto inizialmente le ossa nello Jan Garbarek Quartet per più di un quinquennio ed il suo primo disco da titolare risale al 1975, Clouds In My Hand, guardacaso pubblicato sempre da ECM. I musicisti che lo accompagnano in questa esperienza sono tutti molto più giovani ed appartengono addirittura a due generazioni successive. Si tratta del pianista quarantasettenne Helge Lien, del coetaneo Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. La sequenza dei brani è suddivisa in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II – a cui segue l’ultima traccia, l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, Short Story.

Cominciando con la Part I, il primo movimento viene introdotto proprio dal contrabbassista Andersen, che gioca con gli armonici delle sue corde mentre il piano vi disegna intorno una fragile corona di note. Sono appunti che volano rapidi, mentre le percussioni intervengono alla periferia, proprio poco prima che si avverta il soffio del sax esordire con cautela e discrezione. Il contrabbasso passa all’archetto e a qualche effetto elettronico che riverbera sullo sfondo. Gli strumenti si cercano, si spalleggiano, un pedale wha-wha aggiunge insolite note di colore e quando tende a spegnersi il gruppo trasloca lentamente nel secondo movimento. Questa traccia inizia con una vibrazione volutamente interrotta delle corde del piano impegnate in alcune note ostinate, quasi a organizzare una scansione ritmica condivisa con lo sfregamento frenetico delle spazzole sul rullante della batteria. È di nuovo il contrabbasso che segna un abbozzo di melodia sul quale si muove il sax, ancora molto timido e guardingo. Il piano di Lien capisce le intenzioni del fiato che tende ad irrobustire il suono e si prodiga per far ruotare attorno all’ancia un accompagnamento arpeggiato. Ormai il sortilegio si è tracciato, gli strumenti sembrano cominciare a parlarsi. Il suono si fa dialogo e pianoforte e contrabbasso intavolano una breve conversazione a due, prima che si scivoli nel terzo movimento. Qui il sax si racconta in una specie di lamento melodico, condiviso dai battiti delle percussioni. Neset, in questa circostanza, sembra Garbarek, impegnato in una visione solitaria, evocando paesaggi di spazi desolati con le sue note allungate. Ritorna il piano con una serie di passaggi che ricordano una musica flamenca, con il controcanto del contrabbasso e le decorazioni percussive di Johansen. Arrivati al quarto movimento è ancora il contrabbasso che traccia il sentiero mentre il sax si comporta inizialmente rimarcando insistentemente una nota di bordone, ma si avverte che il sassofono vuole esprimersi di più, tende ad accelerare il ritmo, seguito dal batterista e dalle note più gravi del piano. La tensione aumenta, perde la condizione di subliminalità da cui era partita e si procede verso una dimensione più agitata, quasi selvaggia. Il fraseggio pianistico diventa più free e così pure il sax ma quando sembra che tutto si immerga nel caos si torna indietro sui propri passi. Chiude il sax con pochi soffi rarefatti, si circoscrivono gli altri tre strumenti per progredire così, nel silenzio, verso la Part II.

Il quinto movimento che apre la seconda parte dell’improvvisazione comincia con un battito di piatti e con il piano che s’impegna in poche note rarefatte, ancora in dialogo con il contrabbasso, forse uno dei migliori tête-à-tête di tutto l’album. Gli accordi di piano s’intercalano con le singole corde strappate da Andersen. Il ritmo sotterraneo della batteria e una sorta di inquietudine controllata degli strumentisti ci avverte che il brano salirà d’intensità e così è, infatti. Il sax s’intromette in dialogo con il contrabbasso, dislocando temporaneamente il piano. Qui Neset sembra cambiare stile andando ad assomigliare maggiormente a Michael Brecker con una serie di fraseggi stretti. Quando il sax tace il piano invero pasticcia un po’ andandosi a perdere in una serie di note poco significanti ma ormai siamo arrivati al sesto movimento. E qui il pianista si “riscatta” impostando un accompagnamento serrato e circolare con la mano sinistra mentre sax e contrabbasso cominciano ad intromettersi in questo prologo pianistico fino a diventare gli unici a colloquiare, aprofittando del progressivo silenzio del piano e dell’assenza della batteria. Il tracciato in questione è il più breve della sequenza dei brani e presto si va a confluire nel settimo movimento. L’inizio è sottovoce, ovattato e il piano molto melodico intercala note di suggestivo impressionismo, con la comparsa del sax più cantabile che ci sia capitato di ascoltare in questa registrazione. Un brano sublime, se pensiamo che nasce nell’improvvisazione più totale. E qui è necessario sottolineare quanto accennato all’inizio di questa recensione. Ci sono improvvisazioni – non è il caso di questo album, ovviamente – che si smarriscono nel caos perchè perdono progressivamente consapevolezza. Altre invece, come quest’ultimo movimento, nascono spontanee da un humus fertile e quasi miracolosamente si organizzano in strutture eteree ma geometricamente perfette come cristalli di neve. L’ultimo brano, Short Story, non fa parte dell’improvvisazione totale ma è scritto da Andersen con un bellissimo e fluido linguaggio melodico. Quasi una canzone molto ben arrangiata, come a voler affermare che c’è sì distanza tra improvvisazione completa e il normale lavoro compiuto da ogni jazzista, su melodie più o meno note ma la buona riuscita di entrambe le varianti dipende dalla classe, dalla tecnica e dal talento di ciascun interprete.

Come mi capita sempre più spesso di sostenere, il talento da solo o per contro la sola tecnica non sono nulla, nel jazz. La creatività è un lavoro complesso e dato che tutto costa, nelle nostre esistenze, arrivare a questi livelli dimostrati da Andersen & C. richiede una grande dose di sacrificio e costanza. Al netto di ogni retorica, la scrittura di un diario di bordo di questo livello è possibile solo in rari casi e questo, senza alcun dubbio, è uno di quelli.

Tracklist:

Affirmation, Part I
01. One
02. Two
03. Three
04. Four

Affirmation, Part II
05. Five
06. Six
07. Seven

08. Short Story