R E C E N S I O N E
Recensione di Stefania D’Egidio
L’uscita dell’undicesimo album dei Metallica è stata preceduta da un’attesa spasmodica, visto che se ne parlava ormai dal 2019 e che avrebbe segnato il ritorno della band metal più importante al mondo (insieme agli Iron Maiden naturalmente) ed è normale che sia così, nonostante le tante critiche, ricevute dagli anni ’90 in poi; certo non dev’essere facile replicare il successo commerciale di capolavori entrati nella storia della musica, specie quando tutti si aspettano che ne sforni uno all’anno né si può essere sempre al top senza cadere nella trappola dell’autoplagio, vale per tutti i gruppi, ma cos’altro si può chiedere a quattro musicisti che, alla soglia dei sessant’anni, continuano a mettersi in gioco, nonostante le vicissitudini della vita privata, ben note ai fans, e che passano da un palco all’altro senza sosta? Le seghe mentali le lasciamo a chi critica a priori gli artisti: i Metallica sono una delle poche certezze che ci sono rimaste in un’epoca di grande confusione e di fumo negli occhi, band come loro dovrebbero essere nominate patrimonio dell’Unesco, le chiacchiere stanno a zero. Ma veniamo al disco: il secondo pubblicato con la loro etichetta discografica, ancora una volta con Greg Fidelman (lo stesso di Slipknot e Black Sabbath) nel ruolo di deus ex machina, come in Hardwired…to Self-Destruct del 2016, poi sette anni passati in tour, che hanno permesso loro di festeggiare i quarantadue anni di carriera e di farsi conoscere dalle nuove generazioni, grazie anche alla spinta data dalla partecipazione alla O.S.T. di Stranger Things con la sempreverde Master of Puppets del 1986.
