R E C E N S I O N E
Recensione di Stefania D’Egidio
C’è ben poco da aggiungere quando si parla di un gruppo come gli Iron Maiden, che è entrato di diritto nella storia della musica e che ha contribuito a scriverla la storia, essendo una delle colonne portanti di un intero genere, la New Wave of British Heavy Metal. Centinaia i gruppi che a loro si sono ispirati nel corso degli anni e di cui poi avremmo sentito parlare, ad esempio Metallica e Slayer, tanto per citarne due.
In principio erano visti come un manipolo di capelloni sfigati, con giacca di pelle e jeans attillati, in una Londra dove sintetizzatori e suoni elettronici imperavano, snobbati dalle radio e dalle masse, eccezion fatta per i frequentatori del Ruskin Arms, unica isola felice della capitale inglese per gli amanti del metallo. Impiegano qualche annetto a farsi notare dall’industria discografica, cercando di distinguersi dalle band punk del momento, da cui, tuttavia, attingono per i primi album, ed è solo dopo l’allontanamento del cantante Paul Di’ Anno, divenuto un fardello troppo pesante per i suoi vizi, e l’arrivo del più duttile Bruce Dickinson, che spiccano davvero il volo.

The Number of the Beast, del 1982, ancora oggi è considerato una pietra miliare del metal e, all’epoca, fece discutere non poco, sia per le accuse infondate di satanismo da parte di alcune comunità religiose, che cercarono di boicottarne l’uscita, che per l’evoluzione dello stile, dalla maggiore durata dei brani alla voce di Bruce, al contempo acuta e pulita, capace di raggiungere ben altre tonalità rispetto al predecessore, fino alla complessità dei testi, con riferimenti alla storia, alla letteratura, al cinema e alle sacre scritture. Il resto è storia, una bellissima storia che va avanti tuttora, a distanza di quasi cinquant’anni, con l’uscita il 3 settembre, per Emi Music, del diciassettesimo album in studio, Senjutsu, anticipato nei mesi scorsi dai singoli Stratego e The Writing on The Wall, accompagnato da un bellissimo videoclip animato alla cui realizzazione hanno contribuito due ex dirigenti della Pixar.
Se vi aspettate qualcosa di diverso e di innovativo resterete delusi: “nulla di nuovo sotto il sole“, dicevano i latini, ma quando si è davanti a dei mostri sacri ci si deve accontentare, secondo me, di avere tra le mani un lavoro che sia quantomeno all’altezza dei grandi successi del passato…mi spiego meglio: la sperimentazione di nuovi suoni può portare ad uno snaturamento del proprio marchio di fabbrica, io ad esempio ho mal digerito il nuovo corso pop elettronico degli U2, così come mi lascia molto perplessa l’ultimo singolo dei Guns’N’Roses che circola in rete; se sai fare una cosa e la fai maledettamente bene, come nel caso della Vergine di Ferro, devi continuare su quella strada e Senjutsu è un gran bell’album con dieci tracce lunghe, come da tradizione, con i soliti cambi di ritmo cui ci hanno abituato, le linee di basso cavalcante e le melodie che richiamano i mondi misteriosi della musica orientale e di quella celtica.
Realizzato nel 2019, durante una pausa del Legacy of The Beast Tour, e prodotto dal collaudato duo Kevin Shirley/Steve Harris, presso il Guillaume Tell Studio di Parigi, l’album sarà venduto in doppio CD o triplo vinile, insieme ad un polsino, fino ad esaurimento scorte; sulla copertina, disegnata da Mark Wilkinson, campeggia, come sempre, il mitico e sanguinante Eddie, stavolta in versione samurai, tanto per richiamare il titolo orientaleggiante, che tradotto significa “tattiche e strategia”.
82 minuti di magnifica complessità, a partire dalla title track, posizionata in apertura, con un intro che crea la giusta suspense e un ritornello, invece, più orecchiabile. Segue la galoppante Stratego, dove la mano di Harris si fa più pesante e il riff iniziale di chitarra dà un tocco di epicità, il tutto condito dalla voce perfetta di Dickinson, filo conduttore di tutto l’album. Chitarra acustica e arpeggio spagnoleggiante per l’inizio di The Writing on The Wall, ma solo per i secondi iniziali, perché poi si torna alle melodie celtiche tanto care al gruppo, con un testo che evoca storie di apocalisse.
Il pathos raggiunge l’apice nella successiva Lost in a Lost World, con un vocale arricchito di echi e cori, McBrain che reclama la sua parte e una chitarra ritmica che si intreccia alla perfezione con quella solista. Days of Future Past è il brano più veloce, quello che somiglia di più alla discografia del passato, per struttura, e con un assolo graffiante a metà pezzo. The Time Machine, dopo un intro lento, decolla al terzo minuto, ma si fa interessante soprattutto dopo il quarto minuto con repentini cambi di ritmo e le dita che scorrono veloci sulle tastiere delle chitarre. La mia preferita è in settima posizione, Darkest Hour, il rumore di onde e gabbiani a fare da preludio onirico: che sia la ballad ruffiana a cui gli anni ’80 ci hanno abituato??? Gli ingredienti ci sono tutti, dagli arpeggi al lunghissimo assolo: se non è il momento più emozionante del disco se la gioca alla pari con la successiva Death of The Celts. Dieci minuti forse un po’ eccessivi per chi, come me, difficilmente riesce a stare fermo, richiede un piccolo sforzo di concentrazione, ma basta scavallare la soglia del quarto minuto per arrivare all’essenza del brano con le sue elucubrazioni da antologia progressive. L’assolo finale ripaga comunque dell’attesa. Con The Parchment si va addirittura oltre, fatevi forza, ne vale la pena, del resto abbiamo atteso sei anni per ascoltare del materiale nuovo, ora dobbiamo gustarcelo con la giusta calma questo pezzone saturo di riff e note.
Chiude Hell on Earth, brano dal sapore tragicamente profetico, ma con un risvolto adrenalinico, degna conclusione di un lavoro ben più complesso del precedente The Book of Souls del 2015.
Un lavoro che va oltre il semplice heavy metal, pieno di sfumature progressive che si mescolano alla perfezione con lo stile del sestetto, fatto di intro lenti e arpeggiati alternati a ritmi galoppanti, una voce impeccabile e assoli di chitarra al fulmicotone. La pandemia ha reso l’attesa snervante, ma il risultato finale dimostra che la Vergine di Ferro non solo è viva e vegeta, ma ha anche una gran voglia di far parlare di sé per parecchi anni. Non ci resta che aspettare il Bologna Sonic Park 2022 per vederla dal vivo e scoprire se Dickinson e soci avranno bisogno di un supplemento di vitamine e sali minerali per eseguire i brani di Senjutsu.
N.B. Questa recensione la dedico al mio compagno di classe Simone Marini, grande fan dei Maiden, senza il quale non li avrei mai conosciuti, mio “spacciatore” personale di buona musica quando ancora si viaggiava a nastri: ovunque lui sia, so che apprezzerebbe…
Voto: 10/10
Tracklist:
01. Senjutsu
02. Stratego
03. The Writing on the Wall
04. Lost in a Lost World
05. Days of Future Past
06. The Time Machine
07. Darkest Hour
08. Death of The Celts
09. The Parchment
10. Hell on Earth
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