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Nicholas Payton

Ben Wolfe – Unjust (Resident Arts Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il Jazz è un atto immediato di espressione emozionale. Una sintesi tra il qui ed ora e la sua memoria storica. Uno sviluppo continuo da non leggersi secondo una logica lineare ma come espressione circolare, una musica che torna spesso a verificare sé stessa, come per cercare sicurezza ed accertarsi delle sue fondamenta. Prendiamo ad esempio l’ultimo lavoro del contrabbassista americano Ben Wolfe, Unjust, più precisamente il suo decimo disco da titolare. Questo musicista si è creato un curriculum di tutto rispetto avendo lavorato con Wynton Marsalis – ed anche, in parte, col fratello Brandford – entrando poi nell’orchestra di Harry Connick jr. e partecipando ad una tournee con Diana Krall, oltre alle collaborazioni con due nomi dell’eccellenza pianistica statunitense come lo scomparso Frank Kimbrough e Marcus Roberts. In questa incisione, tra l’altro, in aggiunta allo stesso Wolfe, trovano spazio alcuni musicisti a cui Off Topic ha dedicato spesso una particolare attenzione, come Immanuel Wilkins al sax contralto – trovate una sua recensione qui – e il vibrafonista Joel Ross – se cercate qui e qui di recensioni ne trovate addirittura due. Partecipano inoltre all’impresa il trombettista Nicholas Payton, i pianisti Addison Frei e Orrin Evans, Aaron Kimmel alla batteria e la tenor-sassofonista Nicole Glover. Ebbene, questo album, dimostrando un evidente bifrontismo concettuale, paga un importante tributo alle radici swinganti del jazz, al bebop, alle classiche ballad con tanto di sax fuligginoso ma aggiungendo a queste atmosfere urbane quell’oncia di modernità che fa di questa musica non solo il racconto di una storia dai lontani natali ma anche il riflesso di una effervescente contemporaneità. L’incedere notturno del contrabbasso e il suo loquace dialogo con la batteria, le sonorità spesso voluttuose dei fiati, gli interventi misurati dei pianisti e l’impronta brillante del vibrafono sono tra gli elementi che soddisferanno ampiamente tutti i jazz-addicted, nessuno escluso. Unjust mostra quindi un certo piglio old-fashioned all’interno di cui possiamo intravedere le ombre di Monk, di Mingus, del Modern Jazz Quartet fino alle visioni più cool di un Gerry Mulligan. Il rischio è che da un certo punto di vista possano venire evocate alcune fascinose immagini di luoghi comuni ormai appartenenti più alla mitologia del jazz che non all’attualità, cioè le strade congestionate di traffico frenetico, panoramiche di notturni boulevard sotto la pioggia con le immancabili luci artificiali riflesse sull’asfalto. Eppure, al di là di ogni banale interpretazione retorica, queste immagini rimangono, nonostante tutto, indelebilmente tatuate nella memoria comune. In fondo anche nel jazz sussiste un certo romanticismo che alle volte si ha persino paura di nominare – per non essere tacciati di passatismo – che sopravvive tra le radici di questa musica, anzi, ne costituisce un supporto irrinunciabile.

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Al Foster – Reflections (Smoke Sessions Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Gli inossidabili “anziani del jazz” che sono passati nel tempo sotto la lente di Off Topic sono parecchi. A memoria citerei Andrew Cyrille, Pharoah Sanders, Archie Shepp, Charles Lloyd, il nostro Enrico Rava, ma probabilmente ho l’impressione di sottostimarne il numero totale. Tutti ultra ottantenni con in comune la lucidità dei tempi migliori e una scelta musicale che non tradisce pesantezze né rimpianti eccessivi. Così come ora s’allinea a questo gruppo Al Foster, grandissimo batterista che vanta oltre sessant’anni di carriera e che forse non ha avuto la notorietà di parecchi altri suoi colleghi ma che ha contribuito direttamente alle pagine più importanti della storia del jazz a fianco di Miles Davis, Ron Carter, Herbie Hancock, Joe Henderson, Sonny Rollins, Mc Coy Tyner e l’elenco potrebbe continuare a lungo se non avessi timore di annoiare il lettore. Più misurato rispetto all’esplosivo Art Blakey, meno “rivoluzionario” di Max Roach, non così raffinato se confrontato con Jack De Johnette – quest’ultimo più anziano di sei mesi, grosso modo – ma comunque animato da una vigorosa vivacità, Foster ha sempre saputo riconoscere il suo posto all’interno delle formazioni in cui ha suonato. Del resto uno come lui che è riuscito a convivere per una decina d’anni con un musicista dal caratterino complicato come Miles Davis, qualche qualità aggiuntiva, oltre a quella tecnica, doveva pur averla avuta. Ha scritto di lui lo stesso Davis: “Foster mi colpì perché aveva un bellissimo groove ed era esattamente quello che cercavo…lasciò il gruppo – siamo nell”85- N.d.R. – perché il rock non gli era mai piaciuto e io gli avevo chiesto di suonare un certo backbeat…” (Miles – The Autobiography). Foster ha sempre dimostrato di possedere la sensibilità che forse non tutti i batteristi hanno, cioè quella di ascoltare e seguire gli altri musicisti senza l’ansia dell’assolo a tutti i costi.

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