R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il Jazz è un atto immediato di espressione emozionale. Una sintesi tra il qui ed ora e la sua memoria storica. Uno sviluppo continuo da non leggersi secondo una logica lineare ma come espressione circolare, una musica che torna spesso a verificare sé stessa, come per cercare sicurezza ed accertarsi delle sue fondamenta. Prendiamo ad esempio l’ultimo lavoro del contrabbassista americano Ben Wolfe, Unjust, più precisamente il suo decimo disco da titolare. Questo musicista si è creato un curriculum di tutto rispetto avendo lavorato con Wynton Marsalis – ed anche, in parte, col fratello Brandford – entrando poi nell’orchestra di Harry Connick jr. e partecipando ad una tournee con Diana Krall, oltre alle collaborazioni con due nomi dell’eccellenza pianistica statunitense come lo scomparso Frank Kimbrough e Marcus Roberts. In questa incisione, tra l’altro, in aggiunta allo stesso Wolfe, trovano spazio alcuni musicisti a cui Off Topic ha dedicato spesso una particolare attenzione, come Immanuel Wilkins al sax contralto – trovate una sua recensione qui – e il vibrafonista Joel Ross – se cercate qui e qui di recensioni ne trovate addirittura due. Partecipano inoltre all’impresa il trombettista Nicholas Payton, i pianisti Addison Frei e Orrin Evans, Aaron Kimmel alla batteria e la tenor-sassofonista Nicole Glover. Ebbene, questo album, dimostrando un evidente bifrontismo concettuale, paga un importante tributo alle radici swinganti del jazz, al bebop, alle classiche ballad con tanto di sax fuligginoso ma aggiungendo a queste atmosfere urbane quell’oncia di modernità che fa di questa musica non solo il racconto di una storia dai lontani natali ma anche il riflesso di una effervescente contemporaneità. L’incedere notturno del contrabbasso e il suo loquace dialogo con la batteria, le sonorità spesso voluttuose dei fiati, gli interventi misurati dei pianisti e l’impronta brillante del vibrafono sono tra gli elementi che soddisferanno ampiamente tutti i jazz-addicted, nessuno escluso. Unjust mostra quindi un certo piglio old-fashioned all’interno di cui possiamo intravedere le ombre di Monk, di Mingus, del Modern Jazz Quartet fino alle visioni più cool di un Gerry Mulligan. Il rischio è che da un certo punto di vista possano venire evocate alcune fascinose immagini di luoghi comuni ormai appartenenti più alla mitologia del jazz che non all’attualità, cioè le strade congestionate di traffico frenetico, panoramiche di notturni boulevard sotto la pioggia con le immancabili luci artificiali riflesse sull’asfalto. Eppure, al di là di ogni banale interpretazione retorica, queste immagini rimangono, nonostante tutto, indelebilmente tatuate nella memoria comune. In fondo anche nel jazz sussiste un certo romanticismo che alle volte si ha persino paura di nominare – per non essere tacciati di passatismo – che sopravvive tra le radici di questa musica, anzi, ne costituisce un supporto irrinunciabile.

Quindi suggerirei di abbandonarsi a Unjust non solo nel senso della partecipazione ad una sorta di ritualità citazionista ma anche facendosi trasportare dalla fluttuante leggerezza ritmica e melodica della musica, una qualità che si coglie davvero in abbondanza all’interno di questo album, esempio ben realizzato di ars combinatoria tra attualità e tradizione. The Heckler, il brano di apertura, accorcia il fiato per lo stordente battitìo ritmico, un walking bass – anzi, direi piuttosto un running bass – molto accelerato che in coppia con una batteria altrettanto veloce costituisce il fondale ideale per le improvvisazioni umorali della tromba di Payton e del sax di Wilkins. Questi ultimi, in particolare Payton, si esprimono attraverso dei suoni spiritati che danzano sui carboni ardenti della ritmica mentre il contatto con il terreno lo mantiene il vibrafono, tamponando gli inevitabili silenzi tra un fraseggio e l’altro. Hats off to Rebay rallenta il passo impostando un tema in sincrono tra il vibrafono di Ross ed il sax di Wilkins, con un brano che sembra muoversi a metà strada tra l’estro di Monk e le articolate composizioni di Mingus. Sassofono e vibrafono si sovrappongono, si distanziano, si avvicinano e si riallontanano per lasciare campo libero, sul finale, all’enigmatico andamento misterioso del contrabbasso. Con Lullaby in D si entra in clima ballad ed è il sax espressivo della Glover che sembra ricalcare parzialmente, con la misura sensuale del suo soffio, le orme di Ben Webster. Un tema ammaliante e seducente ci conduce per mano lungo una strada colma di dolcezza e di empatia, con il piano che contorna come un delicato nimbo l’immediatezza timbrica del sax. Bob French è un brano dedicato al batterista jazz omonimo, scomparso nel 2012, già conduttore di un programma radiofonico dalle reti di WWOZ, mitica emittente della Louisiana. Qui si respira l’aria della Blue Note tra i ’50 e i ’60, quella di Ready for Freddie del ’61, tanto per capirci. Un blues sui generis con un sincrono tra tromba e sax e poi con gli stessi fiati che si esprimono singolarmente. La trama pianistica è di Orrin Evans e viene condotta con raro senso della misura e sapienza armonica. Se qui il blues veniva solo suggerito, invece in The Corridor diventa più visibile strutturandosi in trio con il vibrafono come strumento principe e naturalmente la ritmica a svolgere il suo naturale lavoro. Ma si realizza anche qualcosa in più, ad esempio l’assolo di Wolfe, con un contrabbasso dai toni scuri che letteralmente passeggia tra la rarefatta melodia di Ross e lo strascicato brushing di Kimmel. Mask Man si palesa con un aspetto tipicamente be-bop e con un tema parkeriano in cui il gruppo, qui senza la partecipazione del piano, ne tiene sotto controllo la frenesia ritmica grazie all’avvolgente equilibrio consentito dalle misure di contrabbasso e batteria. Tromba e sax, inizialmente all’unisono e poi ciascuno per conto proprio in un paio di assoli, si lasciano andare ad un controllato flusso di coscienza che sembra rivelare caratteristiche stranamente un poco più spettrali rispetto alla classica sensazione di calore promossa dal be-bop.

Eventually mette in mostra un dialogo rilassato tra vibrafono e pianoforte, quest’ultimo condotto da Frei, nell’ambito della tipica struttura di una jazz-ballad. Le note dei due strumenti s’allargano in un alone evanescente, le luci in sala s’abbassano, l’atmosfera si fa intima, le sonorità restano essenziali e disadorne quanto basta. Unjust ribadisce le influenza monkiane a cui si era già accennato inizialmente e dopo un breve intro di batteria viene caratterizzato dal dai-e-vai tra la tromba di Payton e la bella timbrica del sax della Glover, Anche in questo frangente pianoless il clima resta un po’ retrò, legato a certi impianti stilistici già ampiamente collaudati nel passato. In questo brano abbiamo l’occasione di ascoltare più da vicino il lavoro alla batteria di Kimmel. Il musicista dimostra non tanto la sua abilità tecnica nell’assolo da lui condotto ma rivela anche il senso del suo ruolo, una naturale discrezione, l’esserci senza esserci quando non deve esporsi negli stacchi o nei momenti in solo concordati con le necessità del gruppo. Sparkling Red è un moderato slow molto elegante e frizzante come suggerisce lo stesso titolo. Qui entra in gioco quasi tutta l’intera formazione, con l’esclusione della tromba. All’interno della già collaudata trama vibrafono-pianoforte, veramente di struttura sopraffina, s’inserisce un tema proposto dal sax mentre Wolfe si ricava uno spazio per un assolo con l’abituale stile rilassato e le note lavorate quasi sempre nella parte più grave della sonorità del suo strumento. Forse uno dei brani che spicca maggiormente tra tutti per la raffinata e misurata bellezza. Sideways è puro bop-swing condotto a tre, il sax di Wilkins, la tromba di Payton e il vibrafono di Ross a trascinare il resto del gruppo che in questo pezzo manca del pianista. Tutti e tre i musicisti succitati si propongono in assolo e si ritrovano nell’insieme che prelude al finale, costruendo un brano che tenta qualche armonia spericolata ma senza deviare mai troppo da un canovaccio ben delineato, una sorta di ordine interno legato sì, ma non incatenato, alla tradizione. Segue poi la breve ripresa di Hats off to Rebay (interlude) che offre più visibiltà a Wolfe. Ma a chiudere i giochi è un altro brano straordinariamente bello come Reprise. All’insegna della direzione tracciata un tempo da Mingus, Ross guida un tema irresistibile col suo vibrafono raddoppiato dal piano per poi recuperare uno spazio in solitudine di assoluto valore che riconferma in pieno la stima di cui gode questo giovane musicista. Il brano è eseguito in quartetto e tacciono, questa volta, i fiati.

Tornate all’antico e sarà un progresso”, scriveva Giuseppe Verdi. Non dobbiamo pensare, però, che Unjust sia un lavoro che si guardi solo alle spalle o che abbia coltivato in sé il seme della nostalgia. Wolfe intende costruire un’opera che si dimostri in degna continuità col passato ma in ragione evolutiva. Qualcosa di contemporaneo che però non sfilacci il senso del percorso tracciato fin qui più o meno dagli anni ’50 in poi. Inoltre, con un insieme di musicisti come quello presente in questo album, il livello qualitativo si mantiene così alto che ogni discussione sulla reale collocazione storica di questa musica può passare decisamente in secondo piano rispetto al puro piacere dell’ascolto.

Tracklist:
01. The Heckler
02. Hats Off to Rebay
03. Lullaby in D
04. Bob French
05. The Corridor
06. Mask Man
07. Eventually
08. Unjust
09. Sparkling Red
10. Sideways
11. Hats Off to Rebay (Interlude)
12. Reprise (Credits)

Photo © Anna Yatskevich