R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è stato indubbiamente qualche importante cambiamento nel modo di pensare di Immanuel Wilkins. Niente di drammatico, per carità. Anzi, la musica di questo The 7th Hand è ancora più bella, se possibile, del precedente Omega, opera prima di grande spessore già considerata, a ragione, una delle più belle pagine esordienti nel jazz degli ultimi vent’anni. Ma se in Omega l’intenzione alla base dei brani era dichiaratamente un po’ polemica e critica nei confronti dell’allora situazione sociale della comunità nera – ricordiamo tutti i disordini e le violenze subite sotto la presidenza Trump – in The 7th hand si affaccia un aspetto nuovo, una tensione alla trascendenza che tende verosimilmente verso le geografie coltraniane. Il riferimento biblico già velatamente presente nel titolo dell’album, la copertina in b/n a metà tra l’ironico surrealismo felliniano e il ritualismo evangelico, sottolineano una flessione politica a favore di una crescita di coscienza religiosa, rimarcata dall’atteggiamento free che tramuta il finale in un’ “ascensione” psico-sonora che ricorda la fine degli anni ’60 e gli inturgidimenti spirituali del periodo. Sappiamo che Wilkins, come del resto aveva già operato nell’album precedente, ha progettato 7th hand come fosse una suite in cui i brani si continuano, almeno idealmente, uno con l’altro ma più pragmaticamente possiamo suddividere per comodità l’intero disco in due parti. La prima contiene sei brani di altissima qualità con il sax contralto di Wilkins che saetta come un lampo accecante, fraseggi stretti e allargati a secondo delle esigenze e con la stessa band essenziale di Omega che lo segue costruendo una ritmica ben tornita e avvolgente come raramente se ne ascoltano. La seconda parte, invece, è consacrata – lasciatemelo dire – all’ascetismo sull’impronta del Coltrane ultimo periodo. Ma l’intenzione di Wilkins, pare evidente, è la ricerca di un equilibrio tra l’Amore necessario a muovere il Mondo e la consapevolezza della difficoltà nel realizzarlo. Per questo la dimensione marcatamente free di Lift, quasi mezz’ora di improvvisazione che si prolunga nell’ultimo brano live Lighthouse, non è fine a sé stessa ma risuona come uno struggimento, un tentativo anche rabbioso di costruire un rapporto con una dimensione interiore sempre insidiato dalle circostanze contingenti, rapporto avvertito come una tensione irrinunciabile e che come tale viene raccontato da Wilkins e dalla sua band. Il fine di questa vertiginosa conflittualità è superare ogni opposizione e raggiungere così una dimensione nirvanica, uno stato di assenza dell’Io che permetta allo Spirito la sua discesa in una sorta di channelling illuminante. Ricordiamo i musicisti che accompagnano il leader che sono Daryl Jones al basso, Micah Thomas al piano e alle tastiere elettroniche, e Kweku Sumbry alla batteria. Completano l’ensemble Elena Pinderhughes al flauto e le percussioni del Farafina Kan Pecussione Ensemble.

In Emanation, brano che lancia la sequenza dell’album, tutto possiamo pensare tranne che sia un modulo lezioso. Il tema, giocato sulle note più alte del contralto, va quasi subito a confluire nella rotta improvvisativa gestita dal quartetto di base, con Wilkins che si lancia nei suoi fraseggi convulsi, stretti come cappi al collo fino al momento dell’assolo di piano, pieno di fantasia e ansia di ricerca, con esuberanze condotte al di fuori e dentro le scale e con assoluta padronanza tecnica di Thomas. Don’t Break si muove in un clima molto più tranquillo dove sono le percussioni del Farafina Kan Ensemble a tracciare il binario tradizionale che ci rimanda all’Africa. Dopo una breve introduzione molto controllata di Wilkins si espone il tema, quasi sottovoce, gestito dal sax e da un’ostinata sequenza discendente di accordi pianistici. La strumentazione si spegne nella danza felpata delle percussioni che chiudono, in solitudine, il brano. Fugitive Ritual, Selah è un’inaspettata ballad affidata alla voce fosca e suadente del sax di Wilkins e al brushing levitante di Sumbry. Notevole l’assetto melodico del contrabbasso di Jones che contribuisce a riempire il nostro cervello di una buona quantità di oppiacei endogeni. Anche il soffio di Wilkins tende a discostare le timbriche dalle abituali sonorità, arrivando più a somigliare – bestemmia!! – perfino al sax seducente di uno Stan Getz. Shadow resta nel mood della ballad ma con un po’ d’inquietudini in più. Il pavimento diventa leggermente più inclinato e vanno ricercati nuovi equilibri. Il tema ha un andamento circolare, innescando un continuum che si mantiene a lungo e anche quando s’affacciano gli assoli di Wilkins – almeno nel primo tra questi – il tutto avviene con soffi morbidi, lavorati con toni medio-bassi. La band resta sulle sue, passeggiando lungo l’ouroboros quasi in automatico, sapendo già di dover ritornare, passo dopo passo, allo start iniziale. Con Witness restiamo nel clima riflessivo innescato da Fugitive Ritual. L’introduzione avviene con qualche accordo di piano in un clima quasi romantico che rapidamente modula verso un incedere tra la solennità e la malinconia, mentre compare il bel flauto della Pinderhughes a tinteggiare di azzurro la rugginosa atmosfera crepuscolare. Tempo scandito, lentissimo 4/4, ritmica quasi inesistente con il mellotron che riempie gli spazi tra le battute.

Da Lighthouse in poi il gruppo si scuote. Meno riflessioni, meno variabili che non siano espressamente affermative. Ritmica impressionante data la forza manifestata, per saper calibrare e interpretare i momenti che si susseguono con un batterista da portare in trionfo – volendo esagerare – tanto s’impegna a pestare con convinzione su tutti i tamburi e i piatti a disposizione. Resta ancora il flauto che recede negli attimi più rabbiosi del sax ma che riappare, pronto ad offrire senso di equilibrio, ogni volta che Wilkins rifiata e che si apparta ai bordi del palcoscenico sonoro. Da questo momento in poi si entra nella totale improvvisazione. Saltano schemi, relazioni, pagine scritte. Lift, ascensore per il paradiso o meglio, sollevamento verso l’”occultum” per entrare in rapporto quasi mistico con la Luce. Una pentecoste in un clima divampante che ha a che fare col Fuoco come principio d’emanazione divina. Il sax, ad un certo punto, risuona con timbriche gravi che ricordano i suoni profondi degli strumenti tibetani. Ogni elemento razionale si dissolve, si consuma in cenere. Se la presenza di Coltrane si evidenzia in modo inequivocabile è diversa la via della redenzione. Per il mitico sassofonista della Carolina morto ad appena quarantuno anni si trattava del riscatto spirituale, l’ascensione verso un agognato nirvana a dispetto di una vita personale segnata per lunghi tratti dalla dipendenza dall’eroina. Per Wilkins—ventiquattro anni di vitalità creativa in pieno sviluppo – è un vero e proprio assalto al Cielo, il risultato di un’esuberanza incontenibile che vuole annullarsi in un riempimento trascendentale di energia divina. I suoni prolungati del suo sax nel finale, quasi un pianto disperato non sappiamo se di gioia o di dolore, attorno a cui il piano saltella cercando di rimarcare gli spazi per non perdere definitivamente i contatti con la realtà, sono un capolavoro di spontanea espressività. Nella sequenza dei brani arrivati dalla Blue Note è presente, a chiudere, una versione live di Lighthouse. Dobbiamo comunque intenderci sul piano della significanza per ciò che riguarda questo album.

Non si pensi mai, nemmeno nei momenti più caotici di questa musica, a dei banali sperimentalismi situazionisti. Wilkins sa perfettamente cosa vuole e dove vuole arrivare. Magari non al cospetto della divinità ma sicuramente, alla sua età ed alle sue capacità molto, ma molto in alto.

Tracklist:
01. Emanation
02. Don’t Break (feat. Farafina Kan Percussion Ensemble)
03. Fugitive Ritual, Selah
04. Shadow
05. Witness (feat. Elena Pinderhughes)
06. Lighthouse (feat. Elena Pinderhughes)
07. Lift

08. Lighthouse (live)*

Photo © Rog Walker