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Articolo di Sabrina Tolve

La lotteria di Babilonia è un racconto inserito nella raccolta Finzioni, edito in Italia da Einaudi, Mondadori e Adelphi. Ovviamente gli anni di edizione sono diversi. Io vi consiglio di prenderne una copia e divorarla. Il racconto in oggetto narra di una lotteria. Incredibile, eh? Il fatto, però, è che la lotteria in questione non è una lotteria come le altre. È un gioco a premi, certo. Nasce così.

Poi si estende, si allarga, si modifica, si distorce fino a determinare l’esistenza dei cittadini stessi. La lotteria diviene obbligatoria e perde la sua caratteristica positiva: ai premi per i fortunati, vengono affiancate multe per gli sfortunati. O giorni di prigione da scontare. O danni gravi. O ferite. O la morte.
Arriva, infine, a decidere per ognuno. Non solo la vita o la morte, ma ogni aspetto dell’esistenza: la libertà, la schiavitù, l’amore, l’odio. E, ad ogni modo, ogni sorteggio può annullare il precedente. Ma chi decide? La Compagnia organizzatrice? Cospiratori? La Compagnia esiste o no? E la sorte? E il caso? E il caos? Ché il senso è tutto qui, io non sono Vulvia e non siamo su Rieducational Channel.
Prima ho detto caso e ho detto caos. Anagramma evidente. La parola caso deriva dal verbo cadere e «accenna ad ogni fatto, azione o cosa che sia accaduta, che accada o stia per accadere. E però prendesi per accidente, avvenimento che sopravviene senza alcuna necessaria o preveduta cagione.»[1]
Il caso e il caos sono il disordine, il nuovo che sopraggiunge e ci sfila via le certezze. Sono qualcosa che non si può calcolare, che è completamente al di fuori della sfera umana e che si tende, però, a razionalizzare o quantomeno a ritualizzare. Niente di più coerente con La lotteria di Babilonia. Paradossalmente, il caso rende tutti inermi, e tutti uguali. Paradossalmente, il caso (o il caos) è più democratico della democrazia stessa. Almeno in questo caso. A Babilonia, il numero dei sorteggi è infinito, nessuna decisione è conclusiva e, anzi, ognuna si ramifica in altre decisioni. Tutto è aleatorio, tutto è provvisorio. Tutto è un gioco. Ma è la vita stessa ad essere così.
Per quanto si voglia razionalizzare, ritualizzare, istituzionalizzare, qualsiasi cosa è soggetta al caos e al caso: l’economia, la politica, la vita di tutti i giorni. Qualunquista? Forse. Quel che è certo è che tutto può sfuggirci perché il nostro controllo sull’esistenza è nullo. Per quanto possiamo affannarci nel dire e provare ad affermare il contrario.
In Borges il racconto è simbolico e allegorico. Oltre ad avere una molteplicità di piani di lettura, sembra che la filosofia riesca a insinuarsi nella narrazione come un rivolo sotterraneo che sappia bene nutrire di senso ogni singola parola.
Il fluire leggero della scrittura si perde nel labirinto delle tematiche fantastiche con totale naturalezza: ne vengono fuori  racconti (come in questo caso), poliformi e caleidoscopici, modellati su una forma elaborata, ma pulita e raffinata. E tutto questo permise e permette a Borges di divenire e confermarsi scrittore dell’infinito.


 [1]    Dizionario Etimologico Pianigiani, ed. Polaris, Firenze, 1993

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*Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo, ossia Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), è stato scrittore, poeta, saggista, traduttore e docente universitario argentino. È stato uno dei più importanti e influenti personaggi del XX secolo, per quel che concerne la letteratura e la cultura tutta.  Ad esempio, ne Il nome della rosa, Eco dona il suo nome ad uno dei protagonisti, il bibliotecario cieco (per la precisione, il nome è Jorges da Burgos, ma è Eco stesso che specifica che sì, si tratta di una dedica bella e buona al nostro).
Ebbe la capacità di unire filosofia, metafisica e tematiche fantastiche all’interno dei suoi scritti, dando vita a pagine pregne e ricche di simbologie, leggibili dai più disparati punti di vista. E tanto per dirne un’altra, ha avuto ben ventitre lauree honoris causa.
Se non avete letto niente di Borges, fatevi curare.