R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il modo migliore per affrontare la nostra epoca, fortemente ripiegata su sé stessa, sembra essere quello di superare il progressivo nichilismo che ci avvolge come un velenoso rampicante. Per ogni verità che appaia tale se ne profila un’altra antitetica e la Musica, come l’arte in genere, avverte questo conflitto esprimendosi come può, suggerendo la speranza di qualche soluzione positiva. Su questa linea costruttiva si dimostra il vibrafonista Joel Ross, uno tra i riferimenti più luminosi dell’attuale, variegata scena jazzistica statunitense. Insieme ad altri nomi altrettanto risonanti, tra cui Immanuel Wilkins e Marquis Hill, Ross è protagonista di questa ultima prova dal titolo suggestivo, The Parable of The Poet. Un album complesso, a tratti scorrevole e tranquillo, in altri più turbinoso e agitato. Acque trasparenti e torbide che si alternano a testimonianza di come lo spirito del nostro Tempo sia tribolato e mutevole, con grande difficoltà nel reperire punti fermi, con avvenimenti che sembrano sempre sfuggire di mano da un momento all’altro. Ross ha l’idea che il limite tra musica scritta e improvvisata, una volta facilmente rintracciabile nel jazz come espressione di momenti separati – esposizione del tema, giro d’improvvisazioni, recupero del tema iniziale ecc – debba essere rivisto e riproposto in altra forma. Riascoltando le proprie improvvisazioni, Ross recupera da queste alcune frasi sonore su cui elabora una nuova scrittura per proporre poi il tutto in questa attuale veste, se vogliamo, di “recupero”. Una volta realizzato ciò, la musica viene proposta agli strumentisti – che hanno con lo stesso vibrafonista forti legami d’amicizia – su cui ciascuno elaborerà, al di là della lettura obbligata delle parti tematiche, una propria creazione estemporanea. Si ottiene così una dinamica ciclica dalle forti connotazioni emotive che teoricamente potrebbe continuare all’infinito. Al di là delle osservazioni tecniche, questo lavoro di Ross può essere visto in forma di suite, collegando idealmente i vari brani tra loro con quel substrato di corrente spirituale che scorre come un fiume sotterraneo tra i solchi del disco. Perché una delle vere ragioni di una musica come questa è il sentimento quasi religioso che si libera dalle note, come si trattasse di una preghiera, con le sue umanissime scorie di risentimento e di accesa speranza, di devozione e di pentimenti. Insomma, un unico, lungo gospel contemporaneo in cui il Poeta traccia la sua parabola con i mezzi a disposizione, in questo caso una musica che a tratti diventa bellissima e coinvolgente ed in altri momenti sembra annegare in stati di temporaneo smarrimento.

Per la stesura di questo album, accanto a Ross ed al suo vibrafono, troviamo Immanuel Wilkins al sax contralto – il suo nuovo disco lo trovate recensito qui su Off TopicMarquis Hill alla tromba – consiglierei un ascolto del suo bellissimo album New Gospel Revisited, appena pubblicato – Sean Mason al pianoforte, Rick Rosato al contrabbasso, Craig Weinrib alla batteria e la nutrita componente femminile con Maria Grand al sax tenore, Kalia Vandever al trombone e Gabrielle Garo al flauto.

Apre i giochi Prayer, un brano colmo di riflessiva serenità, costruito fondamentalmente su una coppia di accordi, un Mi 7+ con la cadenza sul V°, nel cui breve percorso si snoda l’intero brano con qualche efficace modulazione che l’attraversa per non rendere il tutto troppo uniforme. L’introduzione è affidata al vibrafono, su cui attaccano contrabbasso, batteria e piano, in un classico incipit da jazz ballad. Poi, lentamente, emergono gli altri musicisti, badando a non creare sovrapposizioni confusive. Si evidenzia il tema impostato da trombone e tromba su cui gli altri strumenti disegnano un elegante arabesco.  Nonostante lo spazio sonoro venga adeguatamente riempito non si perde mai il filo della melodia portante che si allunga sopra una rassicurante scala lidia. Il brano suscita un sentimento di commovente devozione, invitando l’ascoltatore ad abbandonarsi alla meditazione sulle note di questa delicata salmodia. In Guilt è il contrabbasso che provvede a delinearne la forma, prima dell’apporto della batteria e poi del vibrafono veramente spettacolare di Ross. L’assetto melodico, di forte stampo europeo fin de siecle, è incline alla malinconia, accentuata dall’intervento discreto dei fiati, in primis del flauto e dagli accordi nostalgici del piano. La comparsa di Wilkins col suo contralto immette un po’ di cambiamento, con qualche nota dissonante che però rientra nell’astronave madre prima della ripresa collettiva del tema. La preponderanza degli ottoni viene stemperata dalle greche di Ross che danno sempre un tocco di leggerezza e volatilità alla composizione. I ritmi si fanno un po’ difformi, il batterista si supera nel frastagliare il tempo e il finale è un crescendo quasi drammatico che si spegne poi nelle ultime note di flauto. Il dubbio e un vago senso di timore emergono invece da Choices. In effetti scelte sbagliate possono avere risultati tremendi e la tensione di questa responsabilità sembra affiorare dall’intero gruppo, rimarcata da un contrabbasso suonato con note lunghe d’archetto nelle sue timbriche più gravi. Affiorano più dissonanze, soprattutto a carico dei fiati, a rimarcare il senso d’incertezza che accompagna lo sviluppo di questa composizione, manifestando così una certa spigolosità, con la dissoluzione dei momenti meditativi che l’hanno preceduta nei brani antecedenti.

La sensazione di tensione innescata con Choices sembra continuare in Wail con il sax di Wilkins soffiato con un tono rabbioso, mantenendosi tuttavia l’aspetto marcatamente melodico. Batteria, contrabbasso e pianoforte si limitano inizialmente a far da camera di risonanza al sassofono prima che entrino gli altri fiati. Quando la tensione emotiva espressa da questo lungo intro finisce, si apre una parentesi più silenziata dove il contralto raccoglie le sue note in un grappolo rarefatto di toni, mentre gli altri strumenti a fiato sembrano scomparire lasciando alla ritmica ed al vibrafono il compito di creare ambienza. La tensione, comunque, non s’allenta anche se procede in modo più controllato e si manifesta attraverso le note sincrone degli altri brass che accompagnano il sassofono, con atmosfere bandistiche e il vorticoso saltellare di Ross tra le lamine del suo vibrafono. Finale in sordina, in una sorta di stanco acquietamento, ma col trombone della Vandever che continua nelle prime note di The Impetus ed oltre, in un assolo che arriva fino a metà della lunghezza del nuovo brano. Poi il piano svolge una sequenza di accordi di stampo gospel con il trombone che abbandona progressivamente la presa a favore del tema reiterato espresso dall’insieme. Il vibrafono ingentilisce il brano, compare la tromba in qualche lampeggiamento sullo sfondo mentre il piano crea figure inafferrabili senza mai essere invasivo. Conclude ancora il trombone esibendo un appeal timbrico da anni ruggenti del jazz. Il tema orecchiabile che torna su sé stesso è la caratteristica principale di questo pezzo, molto bello nonostante il solo di trombone iniziale appaia eccessivamente prolungato. In Doxology prende spazio il sax tenore della Grand ad introdurre il brano con un assolo che scivola in una struttura d’accompagnamento ciclica costituita da quattro accordi che vengono ripetuti dal piano e dalla ritmica. Poderoso il lavoro della batteria di Weinrib impegnato nella continua poliritmia, su cui improvviserà il piano in un primo tempo, per poi accompagnare fiati e vibrafono in un crescendo finale. Benediction, infine, procede con passo lento e cerimoniale originando da una corona di accordi armonizzati attorno alla nota La bemolle, ribattuta fino a quando il brano si riorganizza in una progressione di terze maggiori che riescono a trasmettere una dimensione di tranquilla autorevolezza. La composizione sembra non cercare un finale, tendendo verso un ipotetico orizzonte proiettato all’infinito.

Un gran bel lavoro corale, questa “Parabola del Poeta”, in cui non si può non notare la bravura tecnica di Ross nonché la sua delicatezza d’intervento e la disposizione strategica degli altri strumentisti, ciascuno coinvolto in una visione d’insieme che non soffoca il loro apporto individuale. La musica che se ne ottiene dimostra una configurazione plastica, in continuo adattamento, orientandosi senza sosta in una serie di passaggi che la portano a svuotarsi ed a riempirsi sequenzialmente, tra silenzi e temporanei incrementi di volume. Una meditazione sul destino umano che mai, come di questi tempi, sembra acquistare un’importanza tanto cruciale.

Tracklist:
01. Prayer
02. Guilt
03. Choices
04. Wail
05. The Impetus (To Be And Do Better)
06. Doxology (Hope)
07. Benediction

Photo © Lauren Desberg

La recensione di Joel Ross – Who Are You? (Blue Note Records, 2020)