R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Gli inossidabili “anziani del jazz” che sono passati nel tempo sotto la lente di Off Topic sono parecchi. A memoria citerei Andrew Cyrille, Pharoah Sanders, Archie Shepp, Charles Lloyd, il nostro Enrico Rava, ma probabilmente ho l’impressione di sottostimarne il numero totale. Tutti ultra ottantenni con in comune la lucidità dei tempi migliori e una scelta musicale che non tradisce pesantezze né rimpianti eccessivi. Così come ora s’allinea a questo gruppo Al Foster, grandissimo batterista che vanta oltre sessant’anni di carriera e che forse non ha avuto la notorietà di parecchi altri suoi colleghi ma che ha contribuito direttamente alle pagine più importanti della storia del jazz a fianco di Miles Davis, Ron Carter, Herbie Hancock, Joe Henderson, Sonny Rollins, Mc Coy Tyner e l’elenco potrebbe continuare a lungo se non avessi timore di annoiare il lettore. Più misurato rispetto all’esplosivo Art Blakey, meno “rivoluzionario” di Max Roach, non così raffinato se confrontato con Jack De Johnette – quest’ultimo più anziano di sei mesi, grosso modo – ma comunque animato da una vigorosa vivacità, Foster ha sempre saputo riconoscere il suo posto all’interno delle formazioni in cui ha suonato. Del resto uno come lui che è riuscito a convivere per una decina d’anni con un musicista dal caratterino complicato come Miles Davis, qualche qualità aggiuntiva, oltre a quella tecnica, doveva pur averla avuta. Ha scritto di lui lo stesso Davis: “Foster mi colpì perché aveva un bellissimo groove ed era esattamente quello che cercavo…lasciò il gruppo – siamo nell”85- N.d.R. – perché il rock non gli era mai piaciuto e io gli avevo chiesto di suonare un certo backbeat…” (Miles – The Autobiography). Foster ha sempre dimostrato di possedere la sensibilità che forse non tutti i batteristi hanno, cioè quella di ascoltare e seguire gli altri musicisti senza l’ansia dell’assolo a tutti i costi.

Il disco di cui ci stiamo occupando, Reflections, è “soltanto” il suo sesto album da titolare e non è un lavoro pressato dalla nostalgia, come si potrebbe erroneamente presumere. È invece una prova di “elementare complessità” e l’ossimoro mi viene in aiuto per spiegare al meglio l’essenza di questo album, colmo di raffinatezze musicali e di sottili equilibri ma tutt’altro che difficile da metabolizzare. Certo le ballate non mancano, c’è qualche penombra malinconica – e come potrebbe essere altrimenti? – con Foster che ha sicuramente qualche ruga sulla fronte, soprattutto quando vengono affrontati momenti più riflessivi – le Reflections appunto suggerite da questo titolo – ma vissuti con sufficiente distacco e disincanto. Foster si presenta a questo appuntamento discografico con un supergruppo costituito da Nicholas Payton alla tromba, Chris Potter al sax tenore e soprano, Kevin Hayes al piano e al Rhodes e Vicente Archer al contrabbasso – quest’ultimo l’avevamo già notato nell’album di Jeremy Pelt Soundtrack, la recensione la trovate qui. Un quintetto bello tosto, come quelli d’una volta ma che suona una musica così ben realizzata e stimolante, tra brani d’annata e nuove creazioni, che è un piacere poterlo ascoltare.

L’album apre il suo giro con TS Monk – sta per Thelonious Sphere Monk – una composizione dello stesso Foster ovviamente creata, come omaggio al grande pianista, con l’idea fondante come forse avrebbe potuto essere realizzata dallo stesso Monk, cioè quella di strutturare melodie sghimbescie che tuttavia stanno sempre in piedi, procedendo con armonizzazioni insolitamente scapigliate e, per i tempi, assolutamente nuove. Il brano viene corposamente saturato soprattutto dai due fiati che enunciano il tema in sincrono e poi si sbizzarriscono nei solo, prima con quello di Potter al sax e poi è la volta di Payton alla tromba. I due musicisti hanno il bebop come grammatica di base ma non da meno è il piano di Hayes che swinga con abbrivio moderno prima che venga riproposto il tema. In tutto questo resta in seconda fila l’intera ritmica, Foster compreso, fedele al suo compito coesivo. Il secondo brano in sequenza, Pent-Up House, con quel tema così riconoscibile di Sonny Rollins, fa correre un certo brivido lungo la schiena. Emozione che si rafforza ricordando l’album del 1956 Sonny Rollins plus 4 da cui proviene l’originale. I “più quattro“, tanto per dire, erano Max Roach, George Morrow, Clifford Brown e Richie Powell – questi ultimi due morirono nello stesso incidente automobilistico tre mesi più tardi l’incisone di quell’album… Anche qui lo sviluppo procede alla vecchia maniera, con l’esposizione della traccia portante realizzata all’unisono dalle ance in prima fila, seguita dagli assoli degli strumenti e infine dalla ripresa del tema finale. La sequenza degli interventi ripete quella del brano precedente, iniziando dal sax che ha il compito, tutt’altro che banale, di non far emergere paragoni impietosi con Rollins. Ma Potter suona talmente bene che le sue note potrebbe benissimo confondersi con quelle aspre del sassofonista newyorkese – oggi novantaduenne per la cronaca. Lo stile di Payton, più introverso e meditato, segue precedendo il sorprendente – fino ad un certo punto e non è una novità – pianismo di Heyes che dimostra di sentirsi perfettamente a proprio agio nel contesto. Proprio mentre il piano suona, Foster si concede qualche saetta sul rullante ma nulla di più che non sia un accompagnamento in grado di dare spazio e fiato ai solisti, mentre il contrabbasso continua il suo certosino e paziente lavoro di cucitura. Open Plans è una composizione di Potter a forma di ballad, con un tema molto malinconico, reso nei suoi particolari anfratti emotivi non solo dallo stesso Potter ma anche dall’emozionante tromba di Payton. Mentre il pianoforte scrive in perfetta calligrafia la sua trama di sostegno, Potter improvvisa con un andamento tutto sommato morbido mentre la tromba ricorda, dal punto di vista timbrico, quella di Chet Baker – ascoltare per credere. Foster se la vede maggiormente coi piatti, senza esagerare con scrosci metallici – fate caso ai semplici sfregamenti delle bacchette sui bordi degli stessi – con la delicatezza e il saper fare che gli compete. Bello è anche l’assolo di piano ma è impossibile, in questo disco, accorgersi di qualcosa che non lo sia. È la volta poi di un blues, perché proprio questo genere, nonostante si possa rigirar la frittata in tanti modi, è la matrice su cui si è radicato il jazz. Foster l’ha praticato a lungo e ha scelto come riferimento Blues on the corner, scritto da McCoy Tyner e comparso originariamente in The Real McCoy del 1967, quini in un periodo antecedente alla collaborazione con il pianista. In questo Lp la batteria veniva suonata da Elvin Jones. Foster sceglie un classico accompagnamento con una punteggiatura ritmica assai meno esuberante di quella registrata da Jones, giocata sull’equilibrio tra i piatti e il rullante, aiutato in questo mantenimento bilanciato dal discreto walkin’ del contrabbasso di Archer. Notevolissimo il sax di Potter che se la gioca veramente alla pari con quello originale di Joe Henderson ed anche in questo frangente, non so se sia casuale o meno, non è facile, almeno per me, rimarcare grandi differenze tra il piglio sonoro di entrambi i musicisti. Forse un’anima leggermente più free arde in Potter che ad ogni modo ci regala un assolo perfetto. Volevate ascoltare Foster? Beh, qui non c’è un vero e proprio assolo ma un aumento leggero della dinamica percussiva convogliata sul tom che insieme alle note gravi del contrabbasso contribuisce a scurisce i toni del brano. Anastasia è una ballad creata da Foster, dal tratto quasi cinematografico, e forse non avrebbe sfigurato come soundtrack di un film nouvelle vague fine anni’ 50. La melodia portante viene segnata dal piano che realizza un ombrosa tavolozza sonora sulla quale il sax soprano prima e la tromba poi si alternano spesso incrociandosi e sovrapponendosi con insidiose volute sonore. C’è spazio anche per un breve ed appartato assolo di piano.

Six è composizione di Payton dal sapore fortemente pepato di fusion, con un passaggio che ricorda So What di Miles Davis ma anche qualche frammento di Bitches Brew. D’altra parte in questo disco si gioca spesso e volentieri anche in casa di Miles e non solo per una questione di rapporti strettamente musicali. Dice Foster che “Miles avrà avuto i suoi demoni ma io l’amavo più di mio padre…”, ovvero quando l’amicizia va oltre i limiti professionali. Questo brano ha un inizio vagamente allucinato, una volta lo avremmo definito un jazz psichedelico, subito però rintuzzato da un tema caratteristico suonato all’unisono dai fiati che ci fa capire esattamente in quale dimensione, in realtà, ci si trovi. La tromba ha tutto l’agio di muoversi in un assolo dove va a cogliere spesso intervalli distanti, mentre il sax è classicamente bebop. C’è il Fender Rhodes al posto del piano, strumento che novanta su cento traduce in musica la parola fusion. Molto groove e ritmo incalzante, insomma un piccolo gioiello. Una breve rullata anche di Foster, anzi, a ben vedere un vero e proprio assolo, forse l’unico di tutto il disco. Punjab è un classico di Joe Henderson tratto da In’n Out del 1964. Anche qui c’era Elvin Jones alla batteria: scelta casuale di Foster o inconscio desiderio di competizione? Questa versione sembra quasi, in parte, la fotocopia dell’originale, con la divisione ritmica nello stesso tempo di battuta e persino il drumming di Foster diventa più deciso e fuori dalle sue consuete abitudini. Poi, naturalmente, le improvvisazioni seguono destini diversi ma comunque è bene ribadire, com’è stato fatto precedentemente, che le versioni di Reflections non hanno nulla da invidiare agli originali. Beat è un brano di Kevin Hayes, ispirato a Beatrice di Sam Rivers, costruito su un ostinata nota “Fa” impostata dal contrabbasso su cui il piano elabora una corona di accordi consonanti, prima che i fiati si muovano insieme in un tema di succulenta bellezza, materico quanto basta ma che riesce a mantenere una propria, sensuale avvolgente malinconia. Scritto dal pianista del gruppo, questo pezzo non può far a meno di affrontare un lungo, convincente assolo di piano, che segue nell’ordine uno spiritato excursus di tromba che ha il compito di condurre il pezzo verso territori più ritmati e poi di seguito il solito, scintillante e nervoso sax di Potter. Alone and I è una ballata di alta scuola proveniente da Herbie Hancock e dal suo disco del 1962 Takin’ Off. Comprensibilmente la parte del leone è affidata al piano e qui saltano all’occhio tutte le qualità di Hayes che possiede un tocco delicatissimo, anche quando suona al di fuori degli schemi obbligatamente soft dalle ballate. Half Nelson è un bebop del 1947 composto da Miles Davis quando militava nel quintetto di Charlie Parker. Il piacere di un bebop ben suonato credo che abbia pochi eguali per un jazzofilo. Grande assolo di tromba, un bell’insieme sonoro con una ritmica scorrevole ed un piano suonato da dio. Per non tacere di Potter che s’identifica con Parker, per quanto gli sia possibile, imbastendo un assolo che più parkeriano non si può. Brano pieno di scintille iridescenti, da ascoltare ad libitum. Chiude tutto Monk’s Bossa, traccia di Foster ma che riprende nelle battute iniziali e finali – e anche sparse qui e là – il celebre Straight, No Chaser, pubblicato nel 1967 nell’omonimo album di Monk. Sono solo le note più indicative a ricollegarci mnemonicamente al brano conosciuto, mentre le altre si trasformano in una bossa che niente ha da spartire, ovviamente, con l’originale.

Così Al Foster, passati gli ottant’anni, ci consegna un lavoro euforizzante, spumeggiante, di gran lunga superiore alla media dei dischi di jazz che ci capita di ascoltare ogni mese. La pulsione salvifica dei “vecchi” maestri ci riporta coi piedi per terra mostrandoci cosa significhi saper suonare veramente a livelli di qualità siderale, facendoci capire inoltre quanto a volte sia vago il senso di una musica troppo intellettualizzata. Non si tratta di leggere un testo filosofico perché la musica non passa tanto attraverso la griglia della logica ma viene percepita maggiormente con l’immaginazione e col sentimento, e proprio questo è, incontestabilmente, uno dei punti di forza di Reflections.

Tracklist:
01. T.S. Monk
02. Pent-Up House
03. Open Plans
04. Blues on the Corner
05. Anastasia
06. Six
07. Punjab
08. Beat
09. Alone and I
10. Half Nelson
11. Monk’s Bossa