R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Il jazz suonato dal californiano Jeremy Pelt si è ormai, nel tempo, ben consolidato. Dopo oltre una ventina di pubblicazioni discografiche a proprio nome e più di una cinquantina di altrettante collaborazioni, il quarantaseienne trombettista di Los Angeles ha modo ora di divertirsi e far divertire il suo pubblico attraverso il brillante nuovo album Soundtrack. Questo lavoro, specifica lo stesso Pelt a proposito del titolo un po’ fuorviante, non è stato progettato come una vera e propria colonna sonora ma piuttosto come una linea musicale d’accompagnamento al desiderio di suonare e alla semplice gioia che ne può derivare. Nonostante in questo caso specifico non si cerchi di oltrepassare alcuna frontiera, non si può certo accusare Pelt di misoneismo. Anzi, i colori, d’ogni gamma e sfumatura che vengono impiegati in questo disco, con l’esaustiva partecipazione dei musicisti che accompagnano il leader, vibrano di una emozionante combinazione sempre cangiante ed attuale, in una musica fresca ed ammiccante. La tromba di Pelt sembra raccogliere l’eredità di Freddie Hubbard o anche di Lee Morgan, sebbene nei momenti in cui utilizza la sordina non si può fare a meno d’incrociare le sue suggestioni con quelle velature un po’ ombrose alla MIles Davis, soprattutto del periodo precedente a Bitches Brew. Nelle punteggiature ritmiche, negli interventi al Fender Rhodes e nel vibrafono che ascoltiamo in diversi momenti dell’album, si riscontrano sonorità molto moderne in una seduttiva combinazione ludica e rilassante, attenta a non inciampare in qualsivoglia cliché. Non si può dire che in Soundtrack si lavori sull’essenziale, tanto è ricca ed eterogenea la compagine sonora. Si tratta comunque di un sapiente gioco di montaggio tra tinteggiature strumentali che si incrociano, si accavallano e si rimandano l’un l’altra, seguendo la linea tracciante della tromba. Un’ardimentosa prova collagistica che suona, almeno alle mie orecchie, come una prelibata, piacevole narrazione omogenea. La formazione che accompagna Pelt si arricchisce del sorprendente apporto al vibrafono di Chien Chien Lu, l’avvenente musicista originaria di Taiwan che ha già lasciato dietro sé un’importante traccia con il suo album Path, uscito nel 2020. E che dire di Victor Gould, concittadino di Pelt, al piano e al Rhodes, che ha nella sua sporta già quattro album, compreso l’emozionante In Our Time pubblicato lo scorso anno. La parte ritmica è responsabilità di Vicente Archer, al contrabbasso ed al basso elettrico, e di Allan Mednard alla batteria. Ci sono anche due validi ospiti come la flautista Anne Drummond, di Seattle, che possiede un ampio bagaglio di esperienze che vanno dal jazz, alla musica classica, brasiliana e rock, e inoltre compare la newyorkese Brittany Anjou che interviene occasionalmente al moog ed al mellotron.

Picking up the pieces si apre a trio, con la tromba in evidenza e una swingante ritmica di sottofondo. Pelt riempie lo spazio sonoro con grande padronanza ed autorevolezza fino a metà brano, dove interviene quasi sottovoce il piano elettrico ad introdurre un deciso cambio di passo, un rallentamento in mid tempo a cui s’adegua prima la stessa tromba e poi l’entrata aggraziata del vibrafono. Si chiude con l’insieme del quintetto, continuando sulla falsariga presente dalla seconda metà del pezzo in poi. È la volta di Soundtrack che titola l’album. L’incipit pare quasi una vera colonna sonora di un film noir per quell’incedere un po’ misterioso, carico di tensione soprattutto per i passaggi degli accordi di piano che cogliamo giustappunto all’inizio. Poi la musica si distende per merito soprattutto del ficcante assolo di Chien Lu al vibrafono a precedere l’intervento alla tromba di Pelt, bellissima e materica, che si adagia sugli altri strumenti con quella sicurezza esecutiva e quella chiarità che abbiamo da tempo imparato a riconoscerle. Segue il piano di Gould che ha ben appreso la lezione hard-bebop, prima di chiudere con quegli stessi passaggi sibillini che si erano presentati inizialmente. Be the Light sembra pagare un certo tributo ai Weather Report, più per l’accompagnamento ritmico che per il resto, ma provando, per celia, a commutare il suono della tromba in quello di un sax ci può venire in mente qualche suggestiva ipotesi alla Wayne Shorter. Sempre più sorprendente ed a suo agio il vibrafono, mentre Gould si diverte oltremodo con il piano in una serie di sovrapposizioni sonore così brillanti da ricordare il tocco ed i voli di Petrucciani sulla tastiera. Part 1: The Lighter Side è un frammento molto breve in cui compare il leggiadro flauto della Drummond, una piccola introduzione a quello che è il vero percorso del brano, cioè Part two: The Darkest Side. La batteria, con un delicato ma insistente drumming, insieme al Rhodes e a qualche effetto di mellotron appena accennato, accompagna le note flautate della musicista di Seattle che con passo leggero disegna un cesello di note ben inserite nel carteggio bebop del pezzo, prima che la tromba sordinata, forse addizionata da un effetto elettronico, ne riproduca in parte l’intenzione.

Elegy s’annuncia con una serie di note scure, condotte per mano dal contrabbasso e da qualche cenno di vibrafono. Poi sale il piano e per ultima la tromba ed è proprio in questo brano che le similitudini con lo strumento lirico e sognante di Miles Davis si evidenziano maggiormente. Con I’m still standing torna un tempo più sostenuto e dal punto di vista del supporto ritmico si avverte la vicinanza a certo Nu-jazz di qualche anno addietro, con una serie di pause e di riprese mediate da corpose note basse e temporanei scatti di batteria. La differenza, sostanziosa, la rimarca la tromba ben temperata di Pelt, sempre cristallina, col continuo ricamo del vibrafono che si dimostra essere una vera e propria edera rampicante sonora attorno alla struttura portante del brano in oggetto. I Love Music è un autentico, affascinante slow con un tema che ricorda un famoso standard, It Never Entered My Mind di Rodgers & Hart composto ne 1940 e guarda caso proposto da Miles Davis in Workin’ del 1959, tanto per ribadire il gioco delle somiglianze influenti. Shifting Images è un tipico hard bebop dai tempi stringenti con un inizio che rimanda ancora una volta a Zawinul per poi allinearsi ad una traccia più personale scandita dalla pulizia della tromba e dal sottosuolo armonico del piano elettrico. Non poteva mancare la brava Chien Lu con le sue velocissime scale. Poi un assolo sincrono tra basso elettrico e note gravi del Rhodes che si sovrappongono prima del finale. You and Me è una ballata in cui è il piano elettrico a scandire i livelli di lettura. Percepiamo con una certa accuratezza il movimento del basso elettrico di Archer mentre la tromba di Pelt, dopo un’iniziale evidenza, tende a porsi in un secondo piano, celandosi parzialmente tra le note pianistiche e la componente ritmica.
Non si può quindi non apprezzare la purezza sonora di Soundtrack, il suono levigato di Pelt e la scioltezza vibrafonica della Chien Lu. Più il disco lo si ascolta, più la sua struttura costitutiva si svela e risalta in un certo qual modo la propria linearità progettuale mostrando in trasparenza sentimenti positivi ed una trama variopinta intessuta di intelligenza e semplicità.
Tracklist:
01. Picking Up the Pieces
02. Soundtrack
03. Be the Light
04. Part 1: The Lighter Side
05. Part 2: The Darker Side
06. Elegy
07. I’m Still Standing
08. I Love Music
09. Shifting Images
10. You and Me
Photos © Ra-Re Valverde
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