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Vicente Archer

Al Foster – Reflections (Smoke Sessions Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Gli inossidabili “anziani del jazz” che sono passati nel tempo sotto la lente di Off Topic sono parecchi. A memoria citerei Andrew Cyrille, Pharoah Sanders, Archie Shepp, Charles Lloyd, il nostro Enrico Rava, ma probabilmente ho l’impressione di sottostimarne il numero totale. Tutti ultra ottantenni con in comune la lucidità dei tempi migliori e una scelta musicale che non tradisce pesantezze né rimpianti eccessivi. Così come ora s’allinea a questo gruppo Al Foster, grandissimo batterista che vanta oltre sessant’anni di carriera e che forse non ha avuto la notorietà di parecchi altri suoi colleghi ma che ha contribuito direttamente alle pagine più importanti della storia del jazz a fianco di Miles Davis, Ron Carter, Herbie Hancock, Joe Henderson, Sonny Rollins, Mc Coy Tyner e l’elenco potrebbe continuare a lungo se non avessi timore di annoiare il lettore. Più misurato rispetto all’esplosivo Art Blakey, meno “rivoluzionario” di Max Roach, non così raffinato se confrontato con Jack De Johnette – quest’ultimo più anziano di sei mesi, grosso modo – ma comunque animato da una vigorosa vivacità, Foster ha sempre saputo riconoscere il suo posto all’interno delle formazioni in cui ha suonato. Del resto uno come lui che è riuscito a convivere per una decina d’anni con un musicista dal caratterino complicato come Miles Davis, qualche qualità aggiuntiva, oltre a quella tecnica, doveva pur averla avuta. Ha scritto di lui lo stesso Davis: “Foster mi colpì perché aveva un bellissimo groove ed era esattamente quello che cercavo…lasciò il gruppo – siamo nell”85- N.d.R. – perché il rock non gli era mai piaciuto e io gli avevo chiesto di suonare un certo backbeat…” (Miles – The Autobiography). Foster ha sempre dimostrato di possedere la sensibilità che forse non tutti i batteristi hanno, cioè quella di ascoltare e seguire gli altri musicisti senza l’ansia dell’assolo a tutti i costi.

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Jeremy Pelt – Soundtrack (HighNote Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il jazz suonato dal californiano Jeremy Pelt si è ormai, nel tempo, ben consolidato. Dopo oltre una ventina di pubblicazioni discografiche a proprio nome e più di una cinquantina di altrettante collaborazioni, il quarantaseienne trombettista di Los Angeles ha modo ora di divertirsi e far divertire il suo pubblico attraverso il brillante nuovo album Soundtrack. Questo lavoro, specifica lo stesso Pelt a proposito del titolo un po’ fuorviante, non è stato progettato come una vera e propria colonna sonora ma piuttosto come una linea musicale d’accompagnamento al desiderio di suonare e alla semplice gioia che ne può derivare. Nonostante in questo caso specifico non si cerchi di oltrepassare alcuna frontiera, non si può certo accusare Pelt di misoneismo. Anzi, i colori, d’ogni gamma e sfumatura che vengono impiegati in questo disco, con l’esaustiva partecipazione dei musicisti che accompagnano il leader, vibrano di una emozionante combinazione sempre cangiante ed attuale, in una musica fresca ed ammiccante. La tromba di Pelt sembra raccogliere l’eredità di Freddie Hubbard o anche di Lee Morgan, sebbene nei momenti in cui utilizza la sordina non si può fare a meno d’incrociare le sue suggestioni con quelle velature un po’ ombrose alla MIles Davis, soprattutto del periodo precedente a Bitches Brew. Nelle punteggiature ritmiche, negli interventi al Fender Rhodes e nel vibrafono che ascoltiamo in diversi momenti dell’album, si riscontrano sonorità molto moderne in una seduttiva combinazione ludica e rilassante, attenta a non inciampare in qualsivoglia cliché. Non si può dire che in Soundtrack si lavori sull’essenziale, tanto è ricca ed eterogenea la compagine sonora. Si tratta comunque di un sapiente gioco di montaggio tra tinteggiature strumentali che si incrociano, si accavallano e si rimandano l’un l’altra, seguendo la linea tracciante della tromba. Un’ardimentosa prova collagistica che suona, almeno alle mie orecchie, come una prelibata, piacevole narrazione omogenea. La formazione che accompagna Pelt si arricchisce del sorprendente apporto al vibrafono di Chien Chien Lu, l’avvenente musicista originaria di Taiwan che ha già lasciato dietro sé un’importante traccia con il suo album Path, uscito nel 2020. E che dire di Victor Gould, concittadino di Pelt, al piano e al Rhodes, che ha nella sua sporta già quattro album, compreso l’emozionante In Our Time pubblicato lo scorso anno. La parte ritmica è responsabilità di Vicente Archer, al contrabbasso ed al basso elettrico, e di Allan Mednard alla batteria. Ci sono anche due validi ospiti come la flautista Anne Drummond, di Seattle, che possiede un ampio bagaglio di esperienze che vanno dal jazz, alla musica classica, brasiliana e rock, e inoltre compare la newyorkese Brittany Anjou che interviene occasionalmente al moog ed al mellotron.

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