R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

The Car a suo modo è una riconferma. Gli Arctic Monkeys hanno ribadito che la costante nel lavoro è quella di cercare nuove strade senza avere paura dei passi falsi, dei ripensamenti o di pareri e opinioni della stampa specializzata. Dal debutto Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not del 2006, sono passate tante ere, che, a ben guardare, o meglio dire, a ben ascoltare, sono rappresentate ognuna da un disco diverso. Questa volta, signore e signori, siamo davanti al disco soul di Alex Turner e compagni! Ed è con questa breve introduzione che comunico l’aspetto più significativo di un album non semplice, non immediato ma sicuramente interessante e di ottima fattura. Non si sta prendendo tempo per dare una stroncatura, anzi, ma è evidente che la band ha voluto spiazzare il suo pubblico per creare un’opera elegante e dalle infinite sfaccettature cinematografiche. Il leader, per sua stessa ammissione, non ha idea di come si crei un film, ma conosce bene gli ingredienti e sa che devono esserci diversi elementi da incastrare per far funzionar bene una trama dall’inizio alla fine.

Gli amori finiti male sono l’incipit che consentono di dipanare la matassa dalla prima e interessante There’d Better Be a Mirrorball. L’opera, concepita inizialmente in un monastero del quattordicesimo secolo, ha un non so che di umbratile che lascia il posto di tanto in tanto ad elementi funk ricercati come nella successiva I Ain’t Quite Where I Think I Am, dove la voce di Turner mostra il suo lato più caldo e vellutato. La maturazione della band è evidente, sia nell’opera di arrangiamento che nelle voci; ma è forse la parte orchestrale che offre la sorpresa maggiore di questo The Car. In genere le opere pop inglesi si avvalevano di un contributo d’orchestra che potesse amplificare fino ad esasperare l’incedere di un brano. Qui invece abbiamo un uso sapiente e mai banale. Un perfetto esempio di quanto detto è Sculptures of Anything Goes. Alex Turner e soci in questo episodio disegnano una leggera atmosfera noir ad uso e consumo di un’orchestra che cesella il pezzo e lo rende definitivo. Nel momento in cui cresce il falsetto la chitarra elettrica si apre in un piccolo movimento e la tensione creata si spezza nel momento più alto, lasciando all’ascoltatore con la voglia di averne di più. In Jet Skis on the Moat l’influenza motown si manifesta in tutta la sua grandezza. Voce calda alla Remy Shand (indimenticabile il suo debutto e unico disco perfetto intitolato “The Way I Feel”) e una chitarra che sprizza funk da tutti i pori. Non è un disco facile, ma gli Arctic Monkeys non stanno cercando storie semplici.

La band vuole qualcosa di duraturo e offre al suo pubblico la sfida intrigante di cambiare di nuovo le proprie coordinate pur restando fedeli ai suoi archetipi. Questo è l’aspetto degno di nota e che non deve passare inosservato. La nuova raccolta di canzoni nasce infatti per piacere più che per compiacere e per questo motivo occorre ritagliarsi del tempo da dedicare all’ascolto e all’apprezzamento della nuova voce di Turner, dei nuovi intarsi della band e della calda coperta soul che caratterizza i pezzi. Dopo qualche passaggio non vi sarà difficile immaginare i nostri quattro alle prese con la forma primeva di queste tracce mentre le provano a ripetizione e ad alto volume in un convento. In seguito, canticchiandole tra le varie sale e il refettorio, decidono di dargli il giusto peso rivestendole di una base sensuale che entra dentro a poco a poco. In The Car il viaggio inizia serio e acquisisce di tappa in tappa un aspetto faceto, con il risultato di non riuscire esattamente più a capire cos’è realtà e cos’è sogno. In questa visione onirica ed elegante gli Arctic Monkeys tracciano i loro nuovi confini.

           

Tracklist:
01. There’d Better Be A Mirrorball
02. I Ain’t Quite Where I Think I Am
03. Sculptures Of Anything Goes
04. Jet Skis On The Moat
05. Body Paint
06. The Car
07. Big Ideas
08. Hello You
09. Mr Schwartz
10. Perfect Sense

Photo © Zackery Michael