R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Credo che un musicista possa dirsi realizzato quando riesca a essere sempre se stesso, suonando quello che più gli piace, cambiando strada e compagni di viaggio ad ogni luna nuova, indipendentemente dagli impegni contrattuali con le etichette discografiche. In questo senso Charles Lloyd può dirsi un artista più che realizzato. Nella sua lunga carriera di sassofonista, oggi ultra ottantenne, Lloyd ha sempre mescolato le sue carte, trasvolando su generi musicali diversi senza mai perdere di dignità, anzi, arricchendo i luoghi di transito con la fantasiosa impronta dei suoi fiati, soprattutto sax tenore e flauto. Che sia un jazzista di provata fede non vi sono dubbi, tuttavia egli s’è spesso esposto alle radiazioni del rock, soprattutto in un arco temporale che copre la prima metà dei ’70, collaborando con alcune band tra le più accreditate del tempo, come ad esempio i Beach Boys, i Canned Heat e persino i Doors del breve periodo post morrisoniano. Con i Marvels, Lloyd paga il suo pegno al mondo del rock scegliendo paradossalmente di far del jazz con due chitarristi come Greg Leisz alla pedal steel guitar e Bill Frisell alla chitarra “eclettica”. Quest’ultimo è un altro spirito libero che ha incrociato la sua chitarra con artisti di numerose ed eterogenee esperienze, un po’ come Lloyd stesso, senza mai appendere il cappello al chiodo da nessuna parte. Questo Tone Poem si annuncia come il terzo disco insieme ai Marvels, con un organico che si completa assieme al bassista Reuben Rogers ed Eric Harland alla batteria, con l’assenza della voce di Lucinda Williams. In questo lavoro vi sono incise tracce composte dello stesso Lloyd ma vi sono anche versioni personali di due brani di Net Coleman, uno di Leonard Cohen, di Monk, di Gabor Szabo e del mitico pianista cubano Bola de Nieve, al secolo Villa Fernandez Ignacio Jacinto, detto anche “il pianista di Fidel”.

È quanto meno singolare (o indicativo?) che i brani estrapolati dai lavori di Coleman e Monk siano rispettivamente del ’59 e del ’57, periodo in cui Lloyd cominciò a sentirsi jazzista dentro, lavorando con calibri come Cannonball Adderley, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, qualche anno prima della proficua e più sperimentale collaborazione con Keith Jarrett e Jack deJohnette. All’interno di Tone Poem ce n’è di tutti gusti, dalle spiraliformi volute di sax quasi free dedicate a Ornette Coleman, alle ballatone simil-country, a qualche spiraglio di rock in stile Grateful Dead (!!) e a ritmi più latineggianti d’indole centro-americana, con qualche venatura pop ma di classe sopraffina. Una musica frizzante, piena di brio e di solitarie meditazioni dove occorre, con punte di stemperata malinconia. Peace, brano di Coleman tratto da The Shape of jazz to come, da molti considerato il manifesto del free jazz, apre il disco in maniera moderatamente free, direi morbida anzichenò, dove nessuno tra i musicisti alza la voce e dove le chitarre, in particolar modo quella di Leisz, lavorano con delicatezza creando uno spazio di promesse tutte da mantenere. Quasi un brano jazz-psichedelico, se perdonate l’orrendo neologismo. Ramblin, sempre di Coleman, parte in maniera più robusta, con la steel ad imitazione del fischio del treno (archetipo sempre potente nell’iconografia americana). Un robusto pavimento ritmico si organizza per le escursioni del sax di Lloyd, poi però la traccia prende una direzione talmente inaspettata che pare di sentire la chitarra del compianto Jerry Garcia svisare lassù tra i beati… Ballatona superba il rifacimento di Anthem, canzone di Leonard Cohen, tratta dal suo disco The future del ’92. Sax molto rispettoso della melodia a cui aggiunge solo qualche veloce scala in più. Per il resto il brano resta ben riconoscibile, grazie anche ad un’ordinatissima trama ritmica, batteria ben scandita, basso preciso e ancora una volta le sorprendenti chitarre a cantare la loro canzone. Dismal Swamp ci fa ascoltare Lloyd al flauto traverso. Il tono umorale è alto, fresco, allegro senza straripamenti. Chitarre sempre all’erta, piacevolissime da ascoltare, un brano in definitiva all’insegna di un sano ottimismo. Si cambia strada con il seguente Tone Poem dello stesso Lloyd che nel primo minuto e mezzo di musica sembra presentarsi in veste contemporanea, col sax che corre libero per il pentagramma, salvo poi entrare in un curioso, inaspettato clima a metà tra l’atmosfera latineggiante e quella tex-mex che a me ha ricordato tanto Ry Cooder. Si arriva così al brano di Thelonious Monk, Monk’s mood, tratto da Thelonious himself datato 1957. Lloyd ce ne restituisce una versione molto elegante, rispettandone l’intenzione, accavallando il suo sax alle due splendide chitarre che a tratti sembrano simulare un accompagnamento orchestrale di fiati. Frisell piazza uno dei suoi memorabili assoli di straordinaria finezza muovendosi sinuosamente tra il velluto delle sue corde e tra quelle più languide di Leisz. Ay amor è una melodia di Villa Fernandez, che fu pianista e compositore cubano, amico delle alte gerarchie dell’epoca rivoluzionaria. L’andamento lento e sensuale della musica viene prima agganciato precocemente dal sax e poi lasciato a maturare tra le braccia dei chitarristi che ne fanno quasi una cosa loro, salvo poi restituirlo allo stesso sax nel finale. Dieci minuti di dondolio da sala da ballo per gente elegante ma con orecchie fini. È il chitarrista ungherese Gabor Szabo, o meglio presumibilmente il suo strumento, ad essere omaggiato nella seguente Lady Szabo che ricorda la comune gavetta con il musicista di Budapest nel gruppo di Chico Hamilton, e siamo rientrati nella memoria del tempo passato, nei primi anni sessanta. Lloyd riprende il flauto tra le mani disegnando un’onda velatamente malinconica e liquida. Un intermezzo ben ritmato di percussioni con interessanti spaziosità dentro cui si muovono, come in un acquario, le colorate note delle due chitarre di Frisell e Leisz. Atmosfera quasi psichedelico-californiana, uno dei pezzi che preferisco. Prayer chiude l’album con il sax e con le note gravi del basso di Rogers, anche suonato con l’archetto, mai così in evidenza come in questo brano. Un sassofono lirico, venato di tristezza e di rabbia malcelata a suggello di un gran lavoro ispirato e armonico, ben assimilabile anche da palati poco avvezzi a questi ibridi progettuali. Difficile definire questo disco ma nello sforzo di cercare limiti ed inquadramenti si rischia di perdere per strada la bellezza dell’opera prestando più attenzione ai particolari che alla sostanza. Si tratta comunque di una libera e riflessiva lettura della musica americana, condotta a volo d’uccello su diverse esperienze come il jazz, il rock e la musica latina, quel che costituisce insomma gran parte della storia culturale del Nuovo mondo.

Tracklist:
01. Peace
02. Ramblin
03. Anthem
04. Dismal Swamp
05. Tone Poem
06. Monk’s Mood
07. Ay Amor (Live)
08. Lady Gabor
09. Prayer