R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Attualmente il jazz proveniente dal SudAfrica è in grado di creare attorno a sé un potente campo magnetico riuscendo ad ottenere, attraverso un lessico piuttosto elaborato ed una fertile espressività, un distillato sonoro di grande fantasia e di alto valore energetico. Quello che colpisce, al di là delle effettive capacità dei singoli e del conseguente risultato d’insieme, è la freschezza con cui il messaggio musicale viene fatto pervenire. Nell’ottica del jazz contemporaneo, senza ricorrere necessariamente ad estremistiche dissonanze, questa musica sembra aver completato un lungo peregrinare attraverso i continenti per ritornare infine in terra d’Africa, laddove tutto era iniziato. Talora riempiendosi di fragranze etniche e altre volte riproponendosi come una variante della stessa musica lievitata negli Stati Uniti e in Europa, il jazz sudafricano sta giocando bene le sue carte e partecipa alla perpetuazione del genere, senza pericolo di fossilizzarsi in collaudati stereotipi. Prendiamo ad esempio questo The 1st Gospel che vede il saxofonista contralto e flautista Mthunzi Mvubu – purtroppo i nomi degli artisti sudafricani sono difficili da pronunciare e memorizzare, almeno per noi italiani – debuttare con la sua prima uscita discografica da titolare. Non si pensi a Mvubu come un esordiente, però. Infatti egli ha partecipato come collaboratore a circa una ventina d’incisioni, tra le quali ricordiamo due con Shabaka and the Ancestors – quella di We are Sent Here by History la trovate recensita qui – e altre due con Nduduzo Makhathini, del cui profilo artistico potrete avere notizie sia qui che qui. Inoltre fanno testo anche i numerosi concerti a cui Mvubu ha partecipato, non solo con i due artisti sopra menzionati ma anche con un monumentale musicista sudafricano come Abdullah Ibrahim, con Omar Sosa, Victor Ntoni e diversi altri. Dicevamo della fresca immediatezza della musica sudafricana e nel caso di Mvubu questa caratteristica viene accentuata dal melodismo e in parte dalla cantabilità del suo sax e del flauto ma anche dall’intreccio vincente con il pianoforte di Afrika Mkhize, a mio parere un’autentica rivelazione per come sostiene l’intero asse armonico e ritmico.
