R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono pronto a sottoscrivere che le novità migliori, per quel che riguarda il jazz extraeuropeo, provengono attualmente da Chicago e dal Sud Africa. Non ne conosco le motivazioni intrinseche, ma se si vuole ascoltare del buon jazz contemporaneo, senza cadere nei gorghi cacofonici dello sperimentalismo estremo, ci si deve rivolgere attualmente alla Windy City dell’Illinois oppure all’estremo sud dell’Africa. Prendiamo per esempio questo sassofonista tenore, Linda Sikhakhane – il nome gentile non tragga in inganno, non si tratta di un’eterea fanciulla ma di un robusto ragazzone con tanto di pizzetto alla Gillespie – che avevamo notato nel bel disco di Nduduzo Makhathini, la cui recensione, se non la ricordate, la troverete qui su Off Topic. Cos’ha Sikhakhane tanto da meritare la nostra attenzione? Innanzitutto non si tratta di un esordio, perché il nostro musicista è al suo terzo disco. Ma questo ultimo, Isambulo, che nella lingua madre IsiZulu di Sikhakhane significa “Rivelazione” è stato inciso in Europa, per la precisione a Basilea, con una partecipazione importante di musicisti svizzeri. La costante che accomuna quasi tutti i jazzisti sudafricani è la loro attenzione verso la dimensione spirituale, rafforzata da componenti di natura filosofica-religiosa. In un’intervista a 702 Primedia Broadcasting, una nota stazione radio africana il cui Podcast è facilmente raggiungibile in Rete, Sikhakhane cerca di spiegare alla conduttrice che la Rivelazione, cioè la consapevolezza della propria natura umana, può passare attraverso la musica e che i suoni servono appunto ad aiutare a raggiungere questo obiettivo. Quello che in altri termini, cioè, secondo il pensiero occidentale di C.G. Jung, viene definito come ricerca del Principio d’Individuazione del proprio sé. Che tutto ciò sia realmente fattibile o che rimanga a livello di ipotetica speranza, resta comunque un dato obiettivo ed incontrovertibile. La Musica di Sikhakhane è qui per essere ascoltata, in quel pastoso miscuglio tra matericità sonora e risonanze dell’anima che sono il frutto di una ricerca, armonica e quindi spirituale, operata dall’Autore e da tutti i musicisti che collaborano con lui. Si ascolta molto Coltrane, tra le righe espressive di Sikhakhane, e questa influenza è talora palese, come accade nel brano di apertura di Isambulo, mentre altre volte emerge maggiormente un’autonoma personalità artistica. Questa si è costituita inizialmente in Sud Africa ma si è venuta poi a perfezionare a New York con maestri del calibro del trombettista Charles Tolliver – toglietevi la soddisfazione di ascoltarlo nel suo Connect del 2020 – e del sassofonista Billy Harper, uno tra i maggiori “corresponsabili” dell’influenza coltraniana di Sikhakhane.  

Isambulo comunica un linguaggio eterogeneo nei modi e nella forma, passando attraverso componenti ritmiche che rimandano decisamente alla musica tradizionale africana, alle volte trasmettendo istanze più moderatamente free ed infine – e questo è forse la componente preponderante – esprimendosi con ballate lente, dolci momenti cantati che comunque si manifestano quasi “carnalmente” sui nostri sentimenti. Perché – e non è un controsenso – la componente dello Spirito si evidenzia qui attraverso la Materia musicale, una creta da modellare e rimodellare nella quale si avverte la natura solida dei suoni attraverso la manipolazione delle mani sugli strumenti che diventano così, oltre a puri emettitori sonori, anche i mezzi su cui lavorare per potersi ritrovare – “tools”, in effetti, è uno dei termini utilizzati da Sikhakhane nell’intervista radiofonica sopra accennata. I musicisti che accompagnano l’Autore in questo disco sono gli svizzeri Luca Fries al piano, Fabien Iannone al contrabbasso, Jonas Ruther alla batteria, Matthias Spillmann alla tromba. Sono inoltre presenti l’austriaca Anna Wildauer al canto – già ascoltata nell’album di Makhathini – e i sudafricani Paras anch’egli alla voce e El Hadji Ndgari Ndong alle percussioni.

Si parte con Inner Freedom (revisited). Con il piano che imposta un intervallo di un’ottava bassa in un ostinato accordo di Sol Maggiore e il contrabbasso che ci lavora sopra, il brano sfila dall’inizio alla fine con un profilo che più modale non si può sul quale il sax di Sikhakhane improvvisa alla maniera di Coltrane. Una dimensione rilassante, con le percussioni a creare un accomodante tappeto ritmico e il pianoforte che segna qualche nota d’abbellimento. Una traccia ipnotica, quindi, che fluisce attraverso i suoi sette minuti di durata con estrema naturalezza. Gog’ Uldah inizia come una ballad, con tanto di sequenza di note “staccate” del contrabbasso e il sax che inizialmente scivola su una semplice melodia, per poi prendere il volo quando tutto devia per la tangente, portandosi out of changes, in una moderata e inaspettata deriva. È il momento in cui sembra smarrirsi il centro tonale e lo stesso Sikhakhane si sovrappone al suo sax con qualche intervento parlato. Isambulo, il brano che dà il titolo all’album, ha un incedere marziale ed appare la tromba di Spillmann a lavorare nelle fasi più libere dello sviluppo musicale. Si avverte un sentimento panico e ierofanico sottolineato dalla parentesi più free dell’intero brano. I riferimenti puramente musicali mi hanno suggerito una via intermedia tra Mingus, Sun Ra e l‘Art Ensemble of Chicago. Sax ancora fortemente coltraniano, brano riverberante e inafferrabile, moderatamente sperimentativo. Unongoma sembra un po’ la continuazione logica del brano precedente, ma mentre in Isambulo si avvertiva una sorta di preparazione ad un incontro rivelatore con sé stessi, qui, attraverso il canto accorato di Paras, il randez-vous sta avvenendo e l’insight, come spesso accade, non è mai così indolore. Commento musicale lento e dilatato, quasi fosse una pratica espiatoria che tuttavia non perde l’impronta lirica, facendosi via via più sfuggente.

Si abbandonano le atmosfere introspettive per arrivare a Umbhedesho, quasi un intermezzo ritmico tra un brano e l’altro. Inizia con le percussioni ed un serratissimo fraseggio di contrabbasso, con l’apporto sostanziale della batteria che gioca sui piatti, veloce e leggera. Sikhakhane si concede un tuffo nel jazz newyorkese divertendosi al sax in una parentesi che dura circa poco più di un minuto e mezzo. A Day Passed viene nobilitato dalla limpida e sensuale voce della Widauer e si manifesta in quella che si presenta come una ballata, lenta ed espressiva. Curiosamente la Widauer presenta qualche inflessione vocale, forse nella pronuncia o nella cadenza del cantato, che tende ad assomigliare a Tracey Thorn, nei suoi momenti piùsussurrati. Musica rarefatta che acquista una personalità più decisa quando entrano in simultanea il piano ed il sax. Il brano possiede una grazia leggiadra, circonfusa da un non so che d’ineffabile malinconia. Ikhandlela presenta le sue credenziali con una romantica introduzione di piano, alla Ibrahim nei suoi momenti più introspettivi. Poi è l’inattesa bossa-nova che subentra a costituire l’ossatura ritmica, molto rilassata, con il contrabbasso di Iannone che contribuisce ai toni più caldi ed affettivi. Sikhakhane ha un grande senso della misura e comprende perfettamente quando è il momento di spingere col fiato e quando no. In questo brano si mantiene delicatamente periferico, con un soffio così misurato che, complice l’andamento ritmico sudamericano, pare perfino di ascoltare a tratti il sassofono di Stan Getz. Hymn For The Majors è il brano conclusivo dell’album. Quella che sembra una lunga introduzione, si scopre invece essereil motivo conduttore della traccia che non ha un vero e proprio sviluppo ma è una lunga melodia che torna ciclicamente su di sé, con un’abbondanza di accordi di settima minore e settima aumentata e false risoluzioni che le permettono di cullarsi in un dondolio armonico, una salmodia rasserenante che conclude un lavoro dove l’ansia è stata bandita fin dall’inizio.  

Isambulo è un lavoro di controllata energia, più sereno e tranquillizzante di quanto non ci saremmo potuti aspettare, suonato con un senso della misura encomiabile, dove nessun musicista sente il desiderio di mostrare sfacciatamente le proprie capacità che peraltro affiorano ripetutamente in modo del tutto spontaneo. Un lavoro in cui la tensione spirituale sembra essere più che altro la ricerca di una dimensione felice, alla portata di chiunque voglia prendersi la briga d’interrogarsi un po’ di più e dissiparsi un po’ di meno.

Tracklist:
01. Inner Freedom (revisited)
02. Gog’uIdah
03. Isambulo
04. uNongoma
05. Umbhedesho
06. A Day Passed
07. Ikhandlela
08. Hymn for The Majors