R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
C’è un piccolo mistero all’origine di questo nuovo disco degli Headhunters. Effettivamente si tratta della uscita più recente dopo Platinum del 2011 ma diverse fonti rispetto alle note stampa allegate a questo Speakers in the House, rivelano che in realtà le tracce componenti l’album furono già autoprodotte nel 2018-19. Comunque sia si tratta di una questione trascurabile, visto che l’anno prossimo ricorrerà il cinquantesimo anniversario del battesimo discografico di questa band, avvenuto nel 1973 a fianco di Herbie Hancock. Gli Headhunters non hanno una grande discografia alle spalle, tenendo conto che quest’ultimo album è l’ottavo della loro carriera e i primi due dischi uscirono appunto a nome del grande pianista di Chicago. Ma col nuovo decennio degli ’80 il gruppo non esisteva già più, restando orfano di Hancock che aveva intrapreso altre strade. Dopo una fugace reunion con il loro mentore verso la fine dei ’90, gli Headhunters hanno ripreso una certa attività discografica e concertistica fino ad arrivare ai giorni nostri. Paladini del jazz-funk nel quale il gruppo ha inoculato dosi robuste di influenze afro-caraibiche condite con effetti elettronici, la band ha attraversato tutti questi anni come un’astronave che abbia sfidato la barriera spazio-temporale, riproponendo uno stile musicale in fondo rimasto fondamentalmente uguale. Fonte ispirativa per il nu-jazz degli anni ’90, scopiazzata, campionata, da tutti quei sampleristi che invece di sporcarsi le mani preferivano tagliuzzare e ricomporre opere altrui alle quali aggiungere percussioni elettroniche qua e là, questa band riconosce attualmente i suoi due leader, cioè il percussionista Bill Summers – presente nel gruppo fin dagli esordi – e il batterista Mike Clark, esperto di controtempi che si aggiunse nel ’74 con l’uscita di Thrust. L’importanza di due musicisti legati entrambi all’aspetto rimico come appunto Summers e Clark la dice lunga sulle finalità di un ensemble come questo, lontano anni luce dall’intendere la musica come esercizio intellettuale o eccessivamente sentimentale, puntando sul groove, sul backbeat di Clark e su atmosfere rilassate, luminosamente euforiche, in poche parole decisamente piacevoli. Senza dimenticare però il jazz, che pure alle volte velatamente mascherato e sospeso, non si limita a stare sull’uscio e irrompe col suo carattere deciso in più di un’occasione, come vedremo dall’analisi dei brani che seguiranno. La formazione di questo album, oltre ai citati Summers & Clark, include il bassista elettrico Reggie Washington, il sassofonista contralto Donald Harrison e il pianista-tastierista Stephen Gordon. Si aggiungono gli interventi di Fode Sissoko alla voce ed alla Kora, Jerry Z. all’organo, Ashlin Parker alla tromba e infine Scott Roberts alla programmazione di percussioni elettroniche.

L’album esordisce con la kora di Sissoko in Kongo Square ma quello che può sembrare un puro brano etnico, con il cantato dello stesso Sissoko che si culla sulla cordofonia dolce del suo strumento, viene ben presto a trasformarsi in un linguaggio modal-jazz con l’irruzione della batteria e dei fiati. Sullo sfondo onde di effetti elettronici che aiutano a mantenere una continua, fremente tensione tra la tromba ed il sax, mentre la kora sparisce tra un de profundis di fiati e qualche colpo di tamburo. Resusciterà solo negli ultimi secondi finali, quasi a riannodare il filo del suo discorso interrotto. Rocking at the Mole House è stato pubblicato anche come singolo e la Mole House di cui si parla sembra essere il soprannome con cui veniva indicata la casa abitata da Clark durante la sua infanzia. Inizia con un ritmo di batteria che si maniene metronomicamente tale per gran parte della durata del brano, mentre l’insieme di fiati – ci sono diverse sovraincisioni di sax – quasi bandistico, ricorda certe processioni musicali stile New Orleans. Tra una serie di cornici elettroniche dietro le quinte, si sviluppa la musica variopinta sospinta dai fiati e dalle intermittenti rullate di Clark con la compartecipazione delle percussioni, a profilare tutte insieme un’aria di allegra stravaganza. Con HH75 ci si cala nei mid-tempo funkeggianti in cui piano e tastiere costituiscono l’asse melodico, tra costruzioni modali e basso elettrico a riscattare un ruolo che sa molto di anni ’70. Un groove tranquillo, non molto lontano da certi gradevoli veleni insinuanti alla Quincy Jones. La band ha come fine quello di creare un amalgama coeso di suoni e di atmosfere e non c’è ricerca, per il momento, di quel particolare assolo o di quello spazio individuale che sia espressione del singolo musicista. Over the Bar è una consacrazione vera e propria al funky. Anzi, siamo in territori vicini al R&B e non dovremmo stupirci più di tanto se vedessimo comparire improvvisamente la voce ruggente di un James Brown. Invece i fiati ed una precisissima base ritmica sulla quale il piano saltella con piglio eclettico restano padroni assoluti dello sviluppo del brano. Con Vaspurakan il concetto non muta ma qui compare l’organo di Jerry Z a riempire il substrato ritmico, sul quale il sax investe molto della sua possibilità tecnica, immettendo percentuali di jazz tra le maglie di questo accattivante R&B.

Stoop si struttura attorno ad un groove costruito con semplicità, forse persino troppa, tanto da far regredire l’ascoltatore tra i piaceri retrò di quarant’anni fa e non è detto che questo sia un fatto così positivo… Ma è evidente che gli Headhunters non cercano altro che di rilassare l’ascoltatore sollecitandolo appena sottopelle con il sax, peraltro magistrale, di Harrison. Del resto è lo stesso Summers che afferma, direttamente dalle note stampa, che il suo gruppo “…non è un gruppo di musicisti bensì di medici. Noi curiamo la gente!…” Actual Proof è una rivisitazione del brano omonimo pubblicato su Thrust nel 1974. Rivisitato e stranamente spogliato del suo impianto originale funk, il brano viene trasformato in un ottimo frammento di jazz contemporaneo, tanto che ascoltandolo alla cieca sarebbe difficile riconoscervi l’impronta degli stessi artisti fin qui seguiti. Gordon non fa rimpiangere Hancock e insomma, questa prova collettiva dimostra che gli Headhunters hanno in mano un mazzo di carte molto sostanzioso da giocare e che possono transitare, volendo, da un genere all’altro senza tentennamenti. Paradossalmente, nel contesto di un album costruito con altri fini e indirizzi, questo sembra il brano migliore. Tra l’altro si ascolta finalmente la batteria di Clark nei suoi famosi controtempi, ben fusa con il basso elettrico di Washington. Stop Watch, come brano di chiusura, sembra sintetizzare l’intero lavoro nel suo complesso. Qui la fusione tra il funky ed il jazz raggiunge il suo massimo in una serie di morbidi passi in cui sax e base ritmica si uniscono al pianoforte, fino al momento in cui Harrison molla gli ormeggi e si sfiata in una serie di scale ultraveloci. Ma quando sembra che il brano prenda una certa strada tutto si trasforma in una sorta di samba-jazz, con percussioni ben in vista e la batteria di Clark che esplode in una serie di tambureggiamenti temporaleschi. Non finisce qui, perchè tutto rientra riprendendo il discorso da dove era iniziato, non prima che il sax ci saluti con un torrenziale flusso di note giusto un attimo prima della fine.
Gli Headhunters sono maestri nel provocare un magistrale disorientamento dei sensi. Musica nera per eccellenza, madre dell’hip-hop e del nu-jazz, viene qui riproposta in parte con una veste apparentemente fuori moda, ma in altro contesto con abiti squisitamente di taglio jazz. L’eloquio timbrico è sempre raffinato come un tempo, anche se gran parte di quel Tempo è ormai passato. Ma la band in questione continua a rifiutare il pane avvelenato del consumismo, prima perché troppo avanti rispetto agli anni ’70, oggi perché forse troppo nostalgica di fronte ai continui cambiamenti del mondo musicale. Resta il piacere derivato da quell’iniezione di brio che il gruppo di Summers & Clark continua da sempre a immettere nella propria musica, oggi come ieri, senza alcun ripensamento.
Tracklist:
01. Kongo Square (05:16)
02. Rocking At The Mole House (03:50)
03. HH 75 (06:04)
04. Over The Bar (06:00)
05. Vaspurakan (05:13)
06. Stoop (05:29)
07. Actual Proof (05:05)
08. Stop Watch (07:14)
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