R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Misurarsi con gli standard, per un jazzista, è qualcosa di più che un puro divertimento fine a sé stesso. Non dare per scontata una qualsiasi melodia significa riviverla, riassaporarla e spesso riarmonizzarla, a volte rendendola quasi irriconoscibile ad un orecchio non ben allenato. Una strada preordinata, certo, ma non segnata da alcun limite di transito né di velocità. Occuparsi di uno standard può voler dire anche recuperare il senso storico di una musica, come il jazz, che ha inglobato diverse istanze culturali, dall’emarginazione nera all’accademia della borghesia bianca, dal blues alla canzone sentimentale e infine al rock. Ultimamente poi – come dimostra il penultimo album dello stesso Hamasyan, The Call Within – l’area di assemblaggio si è allargata sempre più, includendo stimoli che vengono da tradizioni popolari europee che non hanno niente da spartire con l’originale cultura afro-americana. Ancora più soddisfazione possono dare brani non considerati propriamente degli standard a tutti gli effetti che magari non compaiono nemmeno nei Real Books. Reperti di un’archeologia emozionale, quindi, passati in secondo piano con le mode e riammessi poi sotto i riflettori tra le dita di un musicista che sa ridare loro una nuova vita. Non sorprende quindi che un pianista affermato e famoso come Tigran Hamasyan, dopo aver testato varie possibilità nella sua musica, dalle lunghe passeggiate modali di A Fable del 2011 fino ai mescolamenti sonori più fantasiosi di The Call Within del 2020, decida ora, dopo più di dieci anni di “vagabondaggio” musicale e undici dischi usciti a suo nome – senza contare tre EP editati dal 2011 al 2018 – di dedicarsi agli standard con il suo ultimo album dall’intrigante titolo StandArt. Hamasyan sottopone queste musiche non tanto ad un processo di mascheramento quanto, a volte, ad un vero e proprio “sabotaggio” delle strutture portanti, spesso modificando gli intervalli tra un accordo e l’altro, alterandone l’andamento ritmico e ripensando il brano, com’è lecito che sia, secondo il proprio istinto e sensibilità. Il risultato ottenuto è una stratificazione di piani emotivi diversi, dalle extrasistolie nervose, quasi ossessive di I Did’nt Know What Time It Was alle sognanti, fiabesche atmosfere di All the Things You Are, transitando così da eccentriche parti strumentali – Laura – ai tempi declinanti di arcana tristezza come in I Should Care. Il fatto è che Hamasyan, immigrato “benestante” dall’Armenia, ha probabilmente preso atto dello jato sociale che negli Stati Uniti – non è una critica ma una constatazione – resta ben tracciabile tra le varie classi d’appartenenza, bianchi, neri, latini, asiatici ecc…

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