Ogni loro uscita è destinata a far discutere: il popolino, si sa, ama dividersi in fazioni e dibattere di tutto, quasi non avesse nulla di meglio a cui pensare; questo i Måneskin lo hanno imparato presto e, come tanti artisti prima di loro, ne hanno fatto un punto di forza. Ad ogni polemica, infatti, seguono milioni di visualizzazioni, servizi televisivi, articoli di giornale e il tutto si trasforma magicamente in soldini: questo è il business, basta vedere il clamore suscitato dal matrimonio organizzato in pompa magna per il lancio di Rush!, a cui certo non potevano mancare i vip del momento, da Fedez a Machine Gun Kelly, officiato niente di meno che da Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci. All’insegna del glamour, nella splendida cornice di Palazzo Brancaccio, una cerimonia esagerata, come solo loro sanno fare, ed “esagerazione” sembra essere ormai la parola d’ordine perché, da Sanremo in poi, sono stati onnipresenti sui principali mezzi di comunicazione, consentendo loro di spiccare il volo verso traguardi internazionali, l’Eurovision Song Contest prima e le trionfali date negli States poi, culminate con l’apertura per i Rolling Stones, fino alla partecipazione alla colonna sonora del biopic su Elvis. A chi li rimprovera di essere un prodotto di laboratorio, rispondo che il risultato è andato ben oltre le aspettative perché si è messa in moto una macchina macina soldi senza precedenti per un gruppo italiano. Fatte queste prime considerazioni, ho aspettato una settimana a recensire l’album, volevo far attenuare il “rumore dei nemici”, come direbbe lo Special One Mourinho, per non lasciarmi influenzare e concentrarmi solo sul prodotto musicale.
Confesso di non aver ancora visto il biopic suElvis diretto da Baz Luhrmann, preferivo concentrarmi sulla colonna sonora, uscita lo scorso 24 giugno, libera dal condizionamento e dalle emozioni delle immagini; mi dicono di un Tom Hanks strepitoso nei panni di Tom Parker e di un Austin Butler in odore di statuetta, quindi forse meglio così. Prendetevi un’oretta buona per ascoltare l’album, io lo sto facendo da circa un mese perché 37 tracce sono davvero tante, anche se le prime due scorrono velocissime. Il repertorio da cui attingere d’altronde è enorme, io stessa mi sarei trovata nell’imbarazzo della scelta, eccezion fatta per Sospicious Minds, che è una delle mie canzoni preferite in assoluto (sia nella versione di Elvis, che in quella anni ’80 dei Fine Young Cannibals) e che, infatti, è presente in diverse salse, sia come campionamento che come remix.
Quando ci si accinge a recensire i Greta Van Fleet si corre il rischio di inciampare nella trappola dei paragoni scomodi: infatti già con il precedente lavoro del 2018, Anthem of The Peaceful Army, erano stati massacrati, dal punto di vista mediatico, per la somiglianza della voce di Josh Kiszka con quella di un altro famoso cantante di una nota band (di cui, di proposito, non farò il nome), quasi fosse un crimine anziché una botta di culo che madre natura ti concede. In tanti li avevano accusati di essere squallidi cloni in cerca di identità, così che questo secondo album è arrivato forse troppo carico di aspettative. Uscito il 16 aprile per Universal Music in cd e vinile colorato Tie Dye in edizione limitata, già al primo giorno di ascolto ha sollevato un vespaio, dividendo il popolo del rock, pertanto mi limiterò a parlarvi di The Battle at The Garden’s Gate per quello che è, una raccolta di 12 brani di sano rock’n’roll in stile anni ’70, con incursioni nella psichedelia e, a tratti, nel progressive. Registrato nell’arco di un anno e mezzo a Los Angeles sotto l’abile guida del produttore Greg Kurstin (lo stesso di Foo Fighters, Paul McCartney e Adele), scelto per la sua camaleontica capacità di lavorare a qualsiasi genere, è stato concepito dalla band come qualcosa di grandioso, con l’intento di scrivere la colonna sonora di un film non ancora realizzato, ispirandosi ai loro artisti preferiti, in primis TheKinks e Ennio Morricone.
Gli ingredienti per la riuscita della ricetta ci sono tutti: chitarre acustiche, come in Tears of Rain, e chitarre rocciose, in Built By Nations, in Caravel, il mio pezzo preferito, e in Age of Machine, bel trip rock psichedelico sull’uso della tecnologia, assoli da manuale, fantastico quello del pezzo di chiusura, The Weight of Dreams, sezione ritmica imponente, il tutto benedetto da una voce al di fuori dal comune. Volevano fare della musica che andasse dai bassi più bassi agli alti più alti e l’obbiettivo è stato centrato in pieno: si va dalle ballad come Heat Above, Broken Bells (e per favore smettetela di dire che assomiglia a Stairway To Heaven) e Light My Love, lento rubacuori con accompagnamento di pianoforte, che mette d’accordo le groupies di ieri e di oggi, a brani dal piglio più frizzantino, come My Way, Soon e Stardust Chords, fino alla psichedelia orientaleggiante di The Barbarians e ai cori celestiali di Trip The Light Fantastic.
Cos’altro si potrebbe desiderare? Forse testi meno semplici e banali, a detta di qualcuno, ma a volte un pò di leggerezza è d’obbligo, specie di questi tempi: provate a immaginare le schiere di analfabeti funzionali, di cui pullulano i social, che tentano di interpretare i testi esoterici e mitologici delle band anni ’70… Inutile girarci attorno: i quattro di Frankenmuth sanno padroneggiare gli strumenti, hanno un innato talento per gli arrangiamenti e una passione per i suoni analogici, anche solo per questo andrebbero lodati e supportati, specie da noi nostalgici; lo avevo già detto a proposito dei Maneskin, lo ripeto per loro: ben venga tutto ciò che serve ad arginare l’avanzata dei barbari trappisti o a risvegliare il rock! Forse The Battle at The Garden’s Gate non sarà l’album che consentirà loro di scrollarsi di dosso l’etichetta di cloni, però ribadisce qual è la strada che vogliono percorrere, già battuta da altri, ma non per questo meno interessante; che vi piaccia o no i Greta Van Fleet sono così, nessuno vi obbliga ad ascoltarli, eppure sarebbe un vero peccato, per gli amanti del genere, lasciarseli scappare per questione di pregiudizi, del resto loro stessi, a chi li critica, rispondono che non gliene frega un c…o: amano fare musica, amano i loro fan e amano anche gli haters, che alla fine sono utilissimi per attirare l’attenzione dei media.
Tracklist: 01. Heat Above 02. My Way, Soon 03. Broken Bells 04. Built By Nations 05. Age of Machine 06. Tears of Rain 07. Stardust Chords 08. Light My Love 09. Caravel 10. The Barbarians 11. Trip The Light Fantastic 12. The Weight of Dreams
Noi italiani siamo un popolo che si divide su tutto e non è una novità, la storia ce lo insegna, quasi fosse insito nel nostro DNA sindacare e litigare: i social non hanno fatto altro che amplificare il fenomeno e portare al “tutti contro tutti”, dando voce a schiere di frustrati, invidiosi e odiatori seriali che, di volta in volta, spostano le loro attenzioni su questo o quell’altro. Una settimana si vomita sui poteri forti o su Big Pharma, la successiva tocca al personale sanitario o agli artisti di Sanremo. Quest’anno è stato il turno di Achille Lauro e, appunto, dei Måneskin: confesso che ho sorriso anch’io nel vedere il loro post su Instagram in cui dichiaravano di “andare a fare la storia”, ma dal sorridere al riempirli di insulti ce ne corre, apriti cielo quando poi hanno trionfato con Zitti e Buoni, gente che urlava addirittura allo scandalo, io stessa mi sono dovuta ricredere, tifavo per l’accoppiata Dimartino-Colapesce, per il fatto che il loro brano mi sembrava più in linea con la tradizione, ma quando l’indomani ho appreso della loro vittoria, mi sono detta che qualcosa di storico era successo per davvero, un brano rock al posto delle solite litanie neomelodiche. L’uscita di Teatro d’Ira – Vol.I il 19 marzo ha scatenato poi una mezza sommossa popolare: “che cazzo c’entrano con il rock?/sono delle fighette parioline/stanno al rock come la fica sta a Malgioglio”, questo il tono dei commenti letti su internet, anche da parte di addetti del settore che dovrebbero mantenere, a mio parere, un certo contegno, insomma, chiunque si è sentito in diritto di inveire contro questi ragazzi, assurgendo al ruolo di critico musicale o esperto di rock.