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Stephan Micus

Stephan Micus – Thunder (ECM Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

È un mondo insolito, quello abitato da Stephan Micus. Forse siamo noi a non accorgerci di quanto la realtà sia eterogenea e composita. Di certo, Micus, ”vecchio” hippy dalla pulsione errante mai sopita, mosso quasi da una genetica wanderlust che lo spinge a viaggiare nei posti più lontani, è da sempre alla ricerca soprattutto di suoni inusuali o comunque non cosi facilmente assimilabili e metabolizzabili dalla cultura occidentale. Dopo venticinque (25!!) album pubblicati a suo nome per ECM, il sessantanovenne musicista di Stoccarda è votato al suono della beatitudine, una musica ottenuta con strumentazione acustica, di tradizione antica, così radicata nei secoli in grado di condurre l’Autore al cospetto di un primitivo sapere, risultato forse d’un insieme di intuizioni che parte dalle radici dell’induismo per transitare attravero religioni e miti orientali, approdando poi, dopo un lungo e ricco viaggio, in Occidente. Micus viene a contatto non solo con le tradizioni e i miti dei paesi che visita, ma soprattutto con gli strumenti musicali che trova – quando non sono gli strumenti stessi a trovare lui! In questo suo ultimo lavoro, Thunder, dedicato alle minacciose divinità dei tuoni in cui hanno creduto – e credono ancora – molti popoli distribuiti dall’Asia all’Europa, Micus utilizza soprattutto tre strumenti particolari. Il primo, di provenienza himalayana, si chiama dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri che viene usata nelle cerimonie buddhiste all’interno dei monasteri. Il secondo è il ki kun ki, uno strumento a fiato lungo un paio di metri, dal suono simile ad una tromba ottenuto soprattutto inalando aria più che soffiarla, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in certe foreste siberiane – avrebbe mai potuto trovarsi dietro casa nostra? – ed il terzo è il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Naturalmente questi non sono i soli mezzi che Micus padroneggia perché, oltre a servirsi di strumenti già collaudati, egli utilizza sovraincisioni della sua voce – e questa non è una novità nella sua discografia – riuscendo a creare effetti di canto ipnotici a richiamare a volte echi di formule sciamaniche e liturgiche. Certo Micus non è nuovo per Off Topic e se volete saperne di più potete consultare la recensione del suo disco dell’anno scorso, Winter’s end, che trovate qui. Tenete presente che comunque Micus suona tutto ciò che sia suonabile e gestisce in solitudine, attraverso opportune sovraincisioni, ogni strumento che potrete ascoltare in questo album.

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Stephan Micus – Winter’s End (ECM Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono convinto che il mondo, oggi, sia così ricco di musica come forse non lo è mai stato in passato. Vi sono talmente tanti musicisti in giro, veri o presunti che spesso diventa difficile selezionare gli ascolti, rischiando così di perdere di vista piccole mirabilia, degne di uno spazio acconcio ad una corretta e attenta valutazione. La storia di Stephan Micus da Stoccarda mi ha sempre affascinato, se ripenso ai suoi inizi. Tra gli ultimi hippy tedeschi proiettati alla scoperta del Marocco e dell’India, Micus esordì nel 1976 con Arhaic concerts, un discreto lavoro a seguito di quella Kosmische Musik che aveva precedentemente affascinato mezza Europa la cui cometa però stava ormai eclissandosi. Invece di perdersi negli astrusi meandri compositivi che inguaiarono molti suoi illustri colleghi, Micus cominciò a dedicarsi allo studio di strumenti musicali acustici che provenivano da diverse parti del mondo, cercando di assemblarli tra loro per trovare una possibile quadra espressiva, mescolando, provando, testando il tutto con strumenti più occidentali e altre volte con la propria voce, approfittando delle tecniche d’incisione multi traccia. Così diventò un autentico “one man band” di lusso e la sua originale qualità compositiva fu notata da Manfred Eicher che lo affiliò alla sua etichetta ECM alla fine dei ‘70 editandogli oltre una ventina di dischi di cui, questo Winter’s End, è buon ultimo.

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