R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

È un mondo insolito, quello abitato da Stephan Micus. Forse siamo noi a non accorgerci di quanto la realtà sia eterogenea e composita. Di certo, Micus, ”vecchio” hippy dalla pulsione errante mai sopita, mosso quasi da una genetica wanderlust che lo spinge a viaggiare nei posti più lontani, è da sempre alla ricerca soprattutto di suoni inusuali o comunque non cosi facilmente assimilabili e metabolizzabili dalla cultura occidentale. Dopo venticinque (25!!) album pubblicati a suo nome per ECM, il sessantanovenne musicista di Stoccarda è votato al suono della beatitudine, una musica ottenuta con strumentazione acustica, di tradizione antica, così radicata nei secoli in grado di condurre l’Autore al cospetto di un primitivo sapere, risultato forse d’un insieme di intuizioni che parte dalle radici dell’induismo per transitare attravero religioni e miti orientali, approdando poi, dopo un lungo e ricco viaggio, in Occidente. Micus viene a contatto non solo con le tradizioni e i miti dei paesi che visita, ma soprattutto con gli strumenti musicali che trova – quando non sono gli strumenti stessi a trovare lui! In questo suo ultimo lavoro, Thunder, dedicato alle minacciose divinità dei tuoni in cui hanno creduto – e credono ancora – molti popoli distribuiti dall’Asia all’Europa, Micus utilizza soprattutto tre strumenti particolari. Il primo, di provenienza himalayana, si chiama dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri che viene usata nelle cerimonie buddhiste all’interno dei monasteri. Il secondo è il ki kun ki, uno strumento a fiato lungo un paio di metri, dal suono simile ad una tromba ottenuto soprattutto inalando aria più che soffiarla, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in certe foreste siberiane – avrebbe mai potuto trovarsi dietro casa nostra? – ed il terzo è il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Naturalmente questi non sono i soli mezzi che Micus padroneggia perché, oltre a servirsi di strumenti già collaudati, egli utilizza sovraincisioni della sua voce – e questa non è una novità nella sua discografia – riuscendo a creare effetti di canto ipnotici a richiamare a volte echi di formule sciamaniche e liturgiche. Certo Micus non è nuovo per Off Topic e se volete saperne di più potete consultare la recensione del suo disco dell’anno scorso, Winter’s end, che trovate qui. Tenete presente che comunque Micus suona tutto ciò che sia suonabile e gestisce in solitudine, attraverso opportune sovraincisioni, ogni strumento che potrete ascoltare in questo album.

Per apprezzare la musica di Thunder occorrono due requisiti fondamentali, dimenticarsi della dimensione temporale ed adattarsi alle prospettive sonore che Micus propone. Non si tratta di musica new-age per meditare comodi nel proprio salotto ma nemmeno di suoni puri che vengano presentati con finalità puramente estetiche. Micus è sempre stato un musicista vero, cioè un artista che crea melodie – inusuali, questo sì – e strutture armoniche insolite. La contrazione spazio-tempo si riduce ad un atomo originario, ad un momento potenziale e nulla di più. Allora, in questa nuova prospettiva atemporale, potremmo saper cogliere, citando Ouspensky che a sua volta si rifà a Gurdjieff, degli autentici frammenti di un insegnamento sconosciuto, abbandonando il mondo dell’esplicito per approdare alle sponde dell’Essere, dove tutto nasce dal silenzio e lì ritorna.

Esordisce in questa sequenza di Thunder l’insolita A song for Thor, il figlio di Odino, dio del tuono e della folgore che appartiene al pantheon delle antiche numinosità germaniche. Qui, a suonare, ci sono ben tre dung-chen, strumento veramente insolito che nella sua timbrica ricorda il didgeridoo australiano o anche il corno alpino delle alpi svizzere. Mentre un paio di questi dung-chen li possiamo ascoltare come una sorta di continuo ohm in sottofondo, tra una serie di scampanellate tibetane e la simil-tromba del ki kun ki, all’improvviso risuona il terzo dung con un timbro potente e cavernoso che ricorda il muggito di un toro. Dobbiamo sottolineare che proprio il toro è stato uno degli animali più arcaici e divinizzati della nostra protostoria. Potremmo definirlo come un animale totemico, quindi rappresentativo del divino, trasversalmente riconosciuto da Est a Ovest. A song for Raijin è invece dedicata alla divinità del tuono giapponese ed è condotta principalmente dal suono dello shakuhachi, un flauto giapponese dalla vibrazione che rimanda ad antiche melodie pastorali, evocando paesaggi inerti e sconfinati, stimolati nell’immaginazione anche dall’assetto tipicamente modale e distensivo della musica che ne segue. In sottofondo qualche percussione ad opera di campane e triangoli come il kyeezee. A song for Armazi tira in ballo una divinità della Georgia asiatica che maneggiava fulmini e fragori relativi. Il brano si regge sulla ritmica e sull’innesco melodico di sei strumenti ad arco, tre sarangi, di tradizione indiana, un nickelharpa di origine svedese e due zithers, sorta di dulcimer di provenienza greca. Una traccia dall’andamento lento, quasi una marcia, musica che non ha dimore, errante e nomade, bellissima nella sua corrente di transitorietà geografica. A Song for Shango è probabilmente il brano più emozionante e denso della raccolta, alludendo ad una divinità naturale della mitologia yoruba, un gruppo etnico-linguistico molto diffuso – si parla di circa quaranta milioni di persone – in Africa occidentale, allargatosi, con lo schiavismo ottocentesco, anche in America Latina. Partecipano a questo brano due tipi di strumenti cordofoni diversi, kaukas e sapeh, sui quali si stratifica la sovraincisione di otto voci dello stesso Micus.

A Song for Vajrapani si riferisce al dio della folgore (vajra) che è un po’ l’emblema del buddhismo tantrico tibetano. Il famigerato doug-chen ritorna alla ribalta con il suo suono vagamente minaccioso che pare provenire direttamente dalle viscere della terra. Preannunciato dalle cupe percussioni del frame drum – in italiano detto tamburo a cornice – il clima si mantiene inquietante, nonostante i più leggeri interventi del flauto di bambù, il nahkan. A Song for Leigong ci porta tra le braccia delle divinità tradizionali cinesi, dove questo dio del tuono, un ibrido andro-teriomorfico, viene qui raccontato attraverso la nebbiosa timbrica del flauto shakuhachi, tra campanule e storm-drum, apparato percussivo sudamericano che attraverso una corda metallica, tirata passando nel foro di una membrana, crea per sfregamento l’effetto di un tuono lontano. Con A Song for Zeus giochiamo in casa, visto che quest’ultimo è forse il dio della folgore, del tuono e dell’aquila che conosciamo meglio, se non altro dai ricordi di scuola. La scelta azzeccata di offrire a questa melodia una connotazione storica più “occidentale” si struttura su un metro cadenzato costruito su una scala dorica – che ha comunque un colore medio-orientale – ed è retto da una triade di strumenti ad arco, il sarangi, la nickelharpa e lo zithers basso. A Song for Ihskur si snoda a mo’ di preghiera con un canto ottenuto dalla sovrapposizione di tre voci registrate dello stesso Micus che s’insinua tra i pizzichii delle corde del liuto sapeh e del kaukas. Per la cronaca, Ihskur è la divinità delle tempeste ed è di origine sumera. A Song for Perun è la chiosa dell’album e viene dedicata ad una divinità slava precristiana. Due ki un ki, ovviamente sovraincisi, simulano in modo impressionante la sonorità della tromba e vanno ad incrociarsi con il primitivo e rituale timbro dei dung-chen.

Stephan Micus è un genio, non riconosciuto come si dovrebbe. Trovatemi un altro musicista che abbia dimestichezza con un gran numero di strumenti come lui e che soprattutto sappia creare musica, non solamente suoni più o meno elegantemente – o bizzarramente – allineati uno dopo l’altro. Soprattutto trovatemi un altro folle che impari a suonare uno strumento come il doug-chen, da cui normalmente vengono ricavate solo un paio di note gravi e che invece lui sfrutta magistralmente riuscendo a ottenerne suoni ulteriori. Ma al di là di queste prescindibili valutazioni, Micus lavora sulle tradizioni culturali musicali preservando un suo personale candore, immergendovisi spirito e corpo ma non rinunciando mai alla propria creatività, al proprio essere musicista che assorbe attivamente lavorando sulle tradizioni stesse, anziché farsene passivamente compenetrare.

Tracklist:
01. A Song For Thor (6:38)
02. A Song For Raijin (4:21)
03. A Song For Armazi (7:26)
04. A Song For Shango (4:53)
05. A Song For Vajrapani (6:50)
06. A Song For Leigong (6:27)
07. A Song For Zeus (3:46)
08. A Song For Ihskur (5:12)
09. A Song For Perun (5:14)