Nel giorno in cui il mondo intero piangeva la morte di una leggenda, ecco che un’altra bussa alla porta per ricordarci che c’è ancora e che venderà cara la pelle prima di passare a miglior vita. Lo fa nel migliore dei modi, forse l’unico che conosca, Ozzy Osbourne, tornando con il suo tredicesimo album in studio, considerato anche Under Cover del 2005. Se la grandezza di un personaggio si misura dall’importanza dei nomi che hanno partecipato alla realizzazione del disco, allora Madman non ha pari in questo, avendo chiamato a raccolta per quest’ultima fatica alcuni dei migliori chitarristi al mondo: dall’amico di lunga data Tony Iommi, riff master ineguagliabile, a Zakk Wylde, Jeff Beck, Mike McCready ed Eric Clapton, insomma gente che non ha bisogno di tante presentazioni. A completare la rosa Robert Trujillo dei Metallica al basso, già collaboratore di Ozzy in passato, Chad Smith dei RHCP e il compianto Taylor Hawkins dei Foo Fighters, che si alternano alla batteria; se stessimo parlando di basket sicuramente sarebbe un dream team! Del resto come poter rifiutare una chiamata del Principe delle Tenebre? Nonostante i continui problemi di salute, che lo hanno afflitto negli ultimi anni, e che altro non fanno che alimentare le fantasie su un ipotetico patto con il diavolo per avere l’immortalità, Ozzy non sembra avere nessuna voglia di mollare il microfono.
La prima volta che li ho ascoltati in radio quasi cadevo giù dalla sedia tanta era la potenza del suono, ho subito pensato: “questi sì che spaccano!”; avevo poi scoperto che il duo, nato a Brighton nel 2011 e composto da Mike Kerr e Ben Tratcher, si sarebbe esibito di lì a poco all’Alcatraz di Milano per un prezzo ridicolo, così mi ero affrettata ad acquistare il biglietto e avevo iniziato a cercare informazioni in rete. Poco noti allora in Italia, all’estero avevano già riscosso un buon successo di pubblico e critica, grazie alla partecipazione a diversi festival, aprendo anche per gruppi famosi, come gli Arctic Monkeys e i Foo Fighters, tanto da attirare le attenzioni di sua maestà Jimmy Page, che si era speso in lunghi elogi su diverse riviste di settore. Vi dicevo della potenza del suono, con una distorsione portata ai massimi livelli e una sezione ritmica al cardiopalmo: non immaginate la mia sorpresa (e non solo la mia) quando la sera del concerto ho scoperto che quel sound così rude non proveniva da una sei corde, ma da un normalissimo basso Gretsch Junior Jett, acquistabile su qualsiasi store on line per poco meno di 400 euro, settato con un fuzz, un octaver e un qualsiasi ampli. Un vero colpo di genio per Mike Kerr e socio, in grado di assimilare i fondamenti del classic rock e di rielaborarli in una chiave del tutto fresca e incendiaria, sia nell’omonimo album di debutto del 2014, che nel successivo How Did We Get So Dark? del 2017. Quando è stata annunciata l’uscita del terzo album, Typhoons, il 30 aprile 2021, quindi ci si aspettava qualcosa sulla falsa riga dei precedenti, e, invece, ecco la svolta che non mi sarei mai aspettata: la virata verso l’elettronica.
Se nel lavoro del 2017 il duo si chiedeva come fosse arrivato a essere così “oscuro”, Typhoons vuole essere il raggio di luce che illumina il buio: frutto di un percorso interiore, che ha visto Kerr uscire dal tunnel della dipendenza da alcool e droghe, l’album tratta infatti tematiche molto personali ed è quasi interamente autoprodotto, eccezion fatta per i brani Boilermaker, che vede alla regia Josh Homme dei QOSA, di cui si sente fortemente la presenza, e Who Needs Friends con Paul Epworth. La lavorazione era già iniziata nel 2019, con un paio di tracce eseguite dal vivo in giro per l’Europa, ma la registrazione vera e propria era partita nel 2020. Pubblicato da Black Mammooth Records e Warner Music, Typhoons si presenta con una copertina futuristicamente accattivante, in versione cd, vinile, normale o autografato, e musicassetta, meno di 40 minuti per undici tracce in totale. Apre Trouble’s Coming, suono acido e dancereccio, come per i Muse di ultimo corso, che vi farà battere il piede per tutto il tempo; il leit motiv si ripete andando avanti: nella successiva Oblivion fanno la comparsa synth e cori, con una voce compressa alla Jack White. In terza posizione la titletrack, con quel ritornello orecchiabile e il solito riff ipnotico a cui ormai ci hanno abituato; il suono si fa poi cupo in Who Needs Friends, più fedele alla produzione passata, ma arricchito di intriganti cori sul finale e accompagnato da un video altrettanto magnetico, da evitare se soffrite di epilessia.
I trascorsi da tastierista di Mike negli Hunting The Minotaur si fanno sentire in Million & One, con un beat elettronico quasi ossessivo, mentre in Limbo finalmente Ben può scatenarsi con le sue bacchette, frapponendosi al botta e risposta tra la voce principale e i cori, con le tastiere in crescendo sul finale. L’unico pezzo che non mi convince è Either You Want It, specie messo prima di Boilermaker, ispirato dalla recente esperienza di disintossicazione di Mike, che cerca di farsi strada nel turbinio di pensieri mentre contempla il fondo del bicchiere. I successivi due brani, Mad Visions e Hold On, hanno davvero un bel groove, tanto da sembrare quasi un continuum, mentre la chiusura, affidata a All We Have is Now, versione piano e voce, dà un tocco di atmosfera onirica.
Cosa dire? Typhoons è sicuramente un album coraggioso: nell’anno in cui abbiamo perso i Daft Punk c’è ancora qualcuno che osa mettersi in gioco, mescolando rock, psichedelia ed elettronica, pur con il rischio calcolato di un lieve calo di tensione: come vi dicevo Either You Want It non mi entusiasma granché e sicuramente preferisco i primi due lavori a questo, che resta comunque un buon album. Sono curiosa di vedere se dal vivo sarà in grado di trasmettere quell’energia che è diventata il marchio di fabbrica del duo di Brighton e se, per il prosieguo, continueranno su questa strada o se torneranno su sentieri più battuti e sicuri.
Tracklist: 01. Trouble’s Coming 02. Oblivion 03. Typhoons 04. Who Needs Friends 05. Million & One 06. Limbo 07. Either You Want It 08. Boilermaker 09. Mad Visions 10. Hold On 11. All We Have Is Now
Quando ci si accinge a recensire i Greta Van Fleet si corre il rischio di inciampare nella trappola dei paragoni scomodi: infatti già con il precedente lavoro del 2018, Anthem of The Peaceful Army, erano stati massacrati, dal punto di vista mediatico, per la somiglianza della voce di Josh Kiszka con quella di un altro famoso cantante di una nota band (di cui, di proposito, non farò il nome), quasi fosse un crimine anziché una botta di culo che madre natura ti concede. In tanti li avevano accusati di essere squallidi cloni in cerca di identità, così che questo secondo album è arrivato forse troppo carico di aspettative. Uscito il 16 aprile per Universal Music in cd e vinile colorato Tie Dye in edizione limitata, già al primo giorno di ascolto ha sollevato un vespaio, dividendo il popolo del rock, pertanto mi limiterò a parlarvi di The Battle at The Garden’s Gate per quello che è, una raccolta di 12 brani di sano rock’n’roll in stile anni ’70, con incursioni nella psichedelia e, a tratti, nel progressive. Registrato nell’arco di un anno e mezzo a Los Angeles sotto l’abile guida del produttore Greg Kurstin (lo stesso di Foo Fighters, Paul McCartney e Adele), scelto per la sua camaleontica capacità di lavorare a qualsiasi genere, è stato concepito dalla band come qualcosa di grandioso, con l’intento di scrivere la colonna sonora di un film non ancora realizzato, ispirandosi ai loro artisti preferiti, in primis TheKinks e Ennio Morricone.
Gli ingredienti per la riuscita della ricetta ci sono tutti: chitarre acustiche, come in Tears of Rain, e chitarre rocciose, in Built By Nations, in Caravel, il mio pezzo preferito, e in Age of Machine, bel trip rock psichedelico sull’uso della tecnologia, assoli da manuale, fantastico quello del pezzo di chiusura, The Weight of Dreams, sezione ritmica imponente, il tutto benedetto da una voce al di fuori dal comune. Volevano fare della musica che andasse dai bassi più bassi agli alti più alti e l’obbiettivo è stato centrato in pieno: si va dalle ballad come Heat Above, Broken Bells (e per favore smettetela di dire che assomiglia a Stairway To Heaven) e Light My Love, lento rubacuori con accompagnamento di pianoforte, che mette d’accordo le groupies di ieri e di oggi, a brani dal piglio più frizzantino, come My Way, Soon e Stardust Chords, fino alla psichedelia orientaleggiante di The Barbarians e ai cori celestiali di Trip The Light Fantastic.
Cos’altro si potrebbe desiderare? Forse testi meno semplici e banali, a detta di qualcuno, ma a volte un pò di leggerezza è d’obbligo, specie di questi tempi: provate a immaginare le schiere di analfabeti funzionali, di cui pullulano i social, che tentano di interpretare i testi esoterici e mitologici delle band anni ’70… Inutile girarci attorno: i quattro di Frankenmuth sanno padroneggiare gli strumenti, hanno un innato talento per gli arrangiamenti e una passione per i suoni analogici, anche solo per questo andrebbero lodati e supportati, specie da noi nostalgici; lo avevo già detto a proposito dei Maneskin, lo ripeto per loro: ben venga tutto ciò che serve ad arginare l’avanzata dei barbari trappisti o a risvegliare il rock! Forse The Battle at The Garden’s Gate non sarà l’album che consentirà loro di scrollarsi di dosso l’etichetta di cloni, però ribadisce qual è la strada che vogliono percorrere, già battuta da altri, ma non per questo meno interessante; che vi piaccia o no i Greta Van Fleet sono così, nessuno vi obbliga ad ascoltarli, eppure sarebbe un vero peccato, per gli amanti del genere, lasciarseli scappare per questione di pregiudizi, del resto loro stessi, a chi li critica, rispondono che non gliene frega un c…o: amano fare musica, amano i loro fan e amano anche gli haters, che alla fine sono utilissimi per attirare l’attenzione dei media.
Tracklist: 01. Heat Above 02. My Way, Soon 03. Broken Bells 04. Built By Nations 05. Age of Machine 06. Tears of Rain 07. Stardust Chords 08. Light My Love 09. Caravel 10. The Barbarians 11. Trip The Light Fantastic 12. The Weight of Dreams
Trentaquattromila followers sono un bel biglietto da visita per una band che sforna il suo album di debutto in un periodo in cui è impossibile andare in tour per promuoverlo e, d’altro canto, forse è anche il momento migliore per essere artisti emergenti: ormai gli album si possono produrre in casa senza troppi problemi, lo fa anche Sir Paul, basta avere gli strumenti musicali, un amplificatore e un software di quelli accessibili a tutti, e per la distribuzione si può anche fare a meno delle major, si pubblica il pezzo sui social e sulle piattaforme di streaming ed il gioco è fatto. Non a caso Instagram si sta rivelando un ottimo alleato nella ricerca di nuova musica da ascoltare, non devo neanche sforzarmi più tanto, merito degli algoritmi che ti entrano nel cervello e già sanno che roba ti piace… Così è stato per i False Heads, trio punkrock londinese composto da Luke Griffiths alla chitarra e voce, Jake Elliott al basso e Barney Nash alla batteria.
Il tanto atteso decimo album dei Foo Fighters esce oggi 5 febbraio in cd, vinile e formato digitale: prodotto da Greg Kurstin, prevede nove tracce per una durata complessiva di 37 minuti. Leggenda vuole che Medicine At Midnight sia stato registrato sul finire del 2019 ad Encino, in una casa infestata da spiriti: l’album sarebbe dovuto uscire nel 2020, per celebrare i venticinque anni di carriera della band, tanti erano i progetti partoriti dalla fervida mente di Dave Grohl, da un tour che avrebbe toccato le stesse città del 1995, per il quale avrebbero addirittura riesumato il mitico pulmino rosso degli esordi, a documentari e partecipazioni varie a trasmissioni. Nulla di tutto ciò, invece: la pandemia ha scombussolato i piani di tutti, famosi e non, anche se mi risulta difficile immaginare il frontman di uno dei migliori gruppi live del mondo confinato tra quattro mura, lui che, prima ancora di essere una rockstar, è un eterno adolescente appassionato di musica, così sfegatato da rimettersi ogni fottuta volta in gioco per dimostrare a se stesso di poter andare oltre e di saper alzare ulteriormente l’asticella.
I Foo Fighters presentano oggi il loro nono album in studio, a distanza di tre anni dall’ultimo Sonic Highways, con il quale avevano scalato le classifiche di tutto il mondo e realizzato un tour trionfale capace di radunare folle oceaniche.