Articolo di Stefania D’Egidio

I Foo Fighters presentano oggi il loro nono album in studio, a distanza di tre anni dall’ultimo Sonic Highways, con il quale avevano scalato le classifiche di tutto il mondo e realizzato un tour trionfale capace di radunare folle oceaniche.

La produzione del disco è stata affidata a Greg Kurstin, famoso per aver collaborato soprattutto con artisti pop del calibro di Adele, Sia e Lilly Allen, cosa che all’inizio mi aveva spaventata non poco, temendo che avrebbe finito per snaturare il sound ruvido di Dave Grohl e colleghi; invece ne è venuto fuori un prodotto che mette d’accordo sia gli amanti del rock classico che di quello più estremo: lo stesso Dave ha dichiarato che l’intenzione era quella di creare una sorta di Sgt.Peppers in versione Motorhead.

Mai titolo fu più azzeccato: Concrete and Gold (cemento e oro), il cemento del rock corposo a cui ci hanno abituati i Foos da anni, con repentini cambi di ritmo, chitarre distorte, batteria potente, e l’oro dei suoni anni ’60-’70, con gli arpeggi e il riverbero.

Devo dire che l’intento è stato rispettato in pieno, nell’album ci sono armonie che riportano dritte dritte ai Fab Four, riff di chitarra alla Toni Iommi e la title track che sembra un tributo alla psichedelia dei Pink Floyd; in Sunday rain si sono addirittura permessi il lusso di ospitare Sir Paul McCartney alla batteria; corre voce che gli siano bastati appena un paio di minuti per entrare nella parte e registrare alla perfezione il brano…

In definitiva mi sono innamorata già al primo ascolto, sarà perché ormai ho qualche lustro alle spalle e il disco rappresenta una perfetta sintesi delle band inglesi con cui sono cresciuta, sarà perché sono riusciti a conciliare il vecchio e il nuovo in maniera impeccabile, senza perdere la loro identità, ma allo stesso tempo senza cadere nella trappola di ripetersi all’infinito.

Questa la track list:

T-Shirt: traccia di poco più di un minuto, inizia con un arpeggio di chitarra acustica, procede con dei cori degni dei migliori Pink Floyd per poi esplodere in un tripudio di distorsione e batteria.

Run: senza pausa si passa dalla prima alla seconda traccia; è una scarica di adrenalina che risveglierebbe persino da un coma profondo. La voce sfiora il trash metal.

Make it Right: rullante e un riff di chitarra quasi funky che ci catapulta negli anni ’70, mi sembra quasi di vedere Jimmy Page  fare capolino con la sua Les Paul.

The Sky Is A Neighborhood: è la traccia più contemporanea dell’album, mi ricorda l’ultima produzione dei Royal Blood nel binomio voce/batteria.

La Dee Da: fa la sua comparsa la tecnologia con il synth di Rami Jaffee, entrato in pianta stabile nel gruppo, e la voce effettata.

Dirty Water: quasi un pezzo indie per una manciata di minuti, poi il sound diventa grezzo, come piace ai fan di vecchia data.

Arrows: 4:26 minuti di potenza pura, giusto per ricordare da dove vengono…

Happy Ever After (Zero Hour): una ballad folk che ti prende per mano e ti riporta nella Liverpool degli anni d’oro.

Sunday Rain: questa volta alla voce troviamo Taylor Hawkins e, ciliegina sulla torta, alla batteria Sir Paul.

The Line: forse il brano più in linea con i lavori precedenti, quello che prepara al gran finale.

Concrete and Gold: un capolavoro per chiudere in bellezza l’album in bilico tra Black Sabbath, per il suono cupo della chitarra, e Pink Floyd, per i cori e gli arpeggi alla Gilmour.

I motivi per cui questo  album non può mancare fisicamente nella collezione: è potente, bello dall’inizio alla fine, i brani sono esattamente dove devono essere, non danno mai la sensazione di essere là giusto per riempire il disco (cosa che, ahimè, capita spesso e mi spinge ad acquistare un singolo brano in formato mp3 anziché l’intero album in cd o vinile), perché è la perfetta sintesi tra classico e nuovo e, infine, perché i Foos sono riusciti ad evolversi senza ripetersi come secondo me sta accadendo ad alcune band storiche degli anni ‘80.