R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Veramente una gran bella sorpresa questo esordio del trombonista e pianista sudafricano Malcom Jiyane. Insieme al suo gruppo Tree-O egli ci propone una suggestiva ipotesi di jazz dal carattere cangiante e mercuriale, una punteggiatura ben attenta ad equilibrare vuoti e pieni senza confuse sovrapposizioni sonore – alle volte spacciate per chissà quale espressione d’avanguardia. Una vita certo non facile per Jiyane, trascorsa in gran parte per le strade di Katlehong, sua città natale, cercando rifugio lontano da una pesante situazione familiare. Poi, un giorno, arriva la “chiamata” e tutto succede quando si trova ad ascoltare Johnny Mekoa, uno dei più famosi trombettisti sudafricani che si esibisce gratuitamente per i ragazzi e i poveri senza casa. Mekoa diverrà il suo mentore e accoglierà Jiyane nella sua scuola dove questi comincerà a praticare il jazz come batterista. Ma il suo vero nume tutelare, colui che gli instillerà la passione per il trombone e per quel particolare respiro musicale che si riscontra in questo Umdali, sarà Jonas Gwanga, uno dei più importanti jazzisti sudafricani di sempre. Jiyane, già elemento portante di SPAZA, una formazione aperta a diverse esperienze sonore sia tradizionali che dichiaratamente sperimentali, cambia invece rotta con questo suo Umdali, proponendo una musica ricca di nuances, dai toni spesso malinconici, che possiede nel suo intimo un ventaglio di influenze piuttosto vasto. Accanto ad espliciti riferimenti ad Herbie Hancock, come vedremo in dettaglio, insieme ai ricordi dell’educazione “sentimentale” di Abdullah Ibrahim, vi sono altri elementi forse più sfumati ma ben avvertibili, come ad esempio qualche flash di Tom Harrell e persino di Miles Davis per gli interventi alla tromba, nello specifico quelle di Tebogo Seitei e Brandon Ruiters. Ci sono, inoltre, innesti di elementi tradizionali, c’è del blues, del soul, del funky ma soprattutto uno splendido jazz tradotto con rigorosa sobrietà interpretativa, dizione elegante e sinuoso lirismo. Una performance controllata e composta, traboccante di poesia, svolta attraverso un linguaggio colloquiale che non intimorisce né innesca ansiogene tensioni.

Autori di questo lavoro, oltre al titolare al trombone, sono alcuni musicisti di Soweto e dintorni. Si tratta di Ayanda Zalekile al basso elettrico, i già citati Brandon Ruiters e Tebogo Seltei alla tromba, Gontse Makhene alle percussioni, Lungile Kunene alla batteria, Nhlanhla Mahlangu al sax alto, l’eccellente Nkosinathi Mathunjwa al pianoforte e piano elettrico e infine Tubatsi Mpho Moloi come vocalist.

Il tutto ha inizio con Senzo Senkosi, un delicato e partecipe tributo a Senzo Nksumalo, bassista del gruppo di Jiyane deceduto prima della progettazione di questo disco. L’introduzione ricorda certi spunti alla Alice Coltrane, un’inspirazione strumentale a pieni polmoni che introduce l’ossigeno necessario alla composizione. Il trombone appena soffiato vive di una apparente timida leggerezza contrappuntata dalla sovrapposizione della tromba. Poi è la volta del sax che improvvisa danzando sulle punte, con il piano che interviene a colmare gli spazi tra le diverse sonorità. Infine l’assolo, magnifico, di Seitei, che ondeggia tra l’ispirazione di Miles Davis e la morbidezza di Chet Baker. Il tema, tre toni che si ripetono come un’onda ricorrente, viene poi ripreso all’unisono dai fiati nel finale, ma il tutto avviene con straordinaria misura per concludersi al piano in modo armonicamente insolito ma efficace, cioè con un accordo diminuito. Umkhumbi Kama è una dedica alle donne, in generale, e alla forza delle madri. Il brano riprende un’idea di Herbie Hancock che proviene dalla sua Suites for Angela – l’album è Mwandishi (1971) – dedicata all’attivista americana per i diritti civili Angela Davis, la cu storia di lotte e prigionia ebbero vasta eco anche in Europa negli anni’70. È questa la traccia più free – si fa per dire – dell’intera opera. Ritmica incisiva ma rarefatta, sostenuta quasi interamente dalla discorsività dei fiati che si esprimono su una base quasi funky e dagli accordi ficcanti di piano elettrico. Si fanno notare Mahlangu al sax e la tromba presumibilmente di Ruiters, dal tono un po’ più acido, alla Bitches Brew. Anche qui il tema viene e va, a folate, lasciando il giusto spazio alle improvvisazioni.

Ntate Gwanga’s stroll, come si può intuire dal titolo, è dedicato a Jonas Gwanga, uno degli spiriti-guida di Jiyane. Si tratta di un blues lento, molto atmosferico, con un tema intrigante recitato dai fiati sovrapposti spesso all’unisono. Bisogna dire che Jiyane è tutto fuorché un accentratore. I suoi interventi, infatti, sono brevi e discreti, preferendo lasciare molto più spazio alle trombe e al sax. Il blues in questione è di quelli che fan dondolare la testa, con un basso elettrico che fa bene il suo mestiere, mai invasivo, mai sopra le righe. Il piano elettrico è una bussola preziosa per evitare di perdersi, è un collante resinoso che tiene legati a sé gli tutti gli altri strumenti. Da notare anche un intervento vocale, in chiusura, dello stesso Jiyane che accompagna il blues nel suo finire. Life Esidimeni è il brano più lungo ma anche il più bello. Il trombone, pulitissimo, è sempre incanalato in note sensuali. Il tema è magnifico e com’è usuale in questo album, è estremamente semplice nella sua linearità e spesso più volte riproposto dall’insieme strumentale. Kunene alla batteria è rispettoso quanto lo è Jiyane col suo strumento. I tamburi, spesso accompagnati da una collana di percussioni tradizionali, seguono la musica con tempi regolari, oserei dire “poco jazzy”. Questa è però la cifra stilistica di tutto il disco, cioè niente schematismi preordinati, niente retorica, nessun “dover essere” ma bensì un “volere” consapevole nella scelta degli assoli e delle soluzioni armoniche. L’architettura del mood è qui forse più importante dell’esecuzione e se c’è veramente qualcosa da capire, tra le pieghe di questa musica, è proprio la coscienza che gli autori – ho infatti l’impressione di una certa collegialità compositiva piuttosto che pensare all’invenzione di uno solo – stiano scrivendo qualcosa di nuovo e di bello con totale cognizione di causa. In chiusura c’è Moshe che si avvale del canto tradizionale e limpido di Mpho Moloi. Questo è il momento decisamente più vicino alla tradizione sudafricana col pianista che omaggia evidentemente Ibrahim. La musica si fa cantabile, dilatandosi piena di echi e di schemi percussioni.

Che dire? Se fossi uno scriteriato sottoscriverei che questo Umdali ha la forza, la bellezza, la serena consapevolezza per essere un capolavoro. Dato invece che sono uomo giudizioso mi trattengo, tiro il freno a mano. Vediamo tra qualche anno se l’effetto all’ascolto rimarrà lo stesso. “Certe cose valgono sempre o non valgono mai”, ha detto un famoso scrittore. Nel frattempo godiamoci questo disco senza pensare al senno di poi.

Tracklist:
01. Senzo seNkosi
02. Umkhumbi kaMa
03. Ntate Gwanga’s Stroll
04. Life Esidimeni
05. Moshe