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Ennio Morricone

Ennio – di Giuseppe Tornatore (Italia, 2022)

C I N E M A


Articolo di Mario Grella

Quando si va al cinema, solitamente, si va per vedere “un” film. Non è così se si va a vedere Ennio, bellissimo film-documentario di Giuseppe Tornatore sulla vita, ma soprattutto sull’opera di Ennio Morricone. In questo caso si va a vedere non solo “un” film, ma una buona parte del cinema italiano dal dopoguerra ad oggi. Questo grazie alla straordinaria figura e, per una volta l’aggettivo non è usato a sproposito, di Ennio Morricone e della sua intensa collaborazione con buona parte dei grandi registi italiani e non solo. Il film di Tornatore indaga a fondo il rapporto tra regista ed autore della colonna sonora, e più in generale sul rapporto musica-film e lo fa attraverso la testimonianza appassionata ed approfondita del grande compositore romano. Morricone ricorda gli albori del suo rapporto con la musica, quando il padre lo costrinse allo studio della tromba che gli consentì di aiutare anche economicamente la famiglia. Dallo studio della tromba, ed in maniera inconsueta, Morricone, sotto l’egida di Goffredo Petrassi, ebbe accesso al corso di composizione del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Ed è proprio l’intenso rapporto dialettico ed anche il conflitto ideale con Goffredo Petrassi a segnare nell’intimo tutta la sua carriera.

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Billy F Gibbons – Hardware (Concord Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Stefania D’Egidio

A vederlo incute un certo timore Billy Gibbons, con la sua barba lunga, gli occhiali scuri e la voce tenebrosa, ma in realtà è una persona dolcissima nella sua stravaganza: ho avuto l’onore di incontrarlo qualche anno fa in quel di Locarno, intervistato da uno dei miei idoli radiofonici, Luca De Gennaro, ed è stato uno dei pomeriggi più spassosi che abbia passato. Ti aspetti che tiri fuori chissà quale aneddoto e, invece, ecco che attacca a parlare della sua infanzia in Texas e di quando, all’età di 5 anni, la madre lo portò ad un concerto di Elvis Presley e rimase folgorato dalla musica. Un predestinato, perchè, figlio di direttore d’orchestra, comincia prestissimo a suonare la batteria, ma è a 14 anni che molla tutto per la sei corde, e inizia a suonare in giro con il suo gruppo, arrivando perfino ad aprire per Jimi Hendrix. La gavetta è lunga, nel ’69 fonda gli ZZ Top con il bassista Dusty Hill, gemello di barba, e il batterista Frank Beard, ma è solo negli anni ’80 che raggiungono il successo con l’album Eliminator. Nell’immaginario collettivo il trio è sempre associato alle hot rod, le vetture storiche americane che sfrecciano nel deserto tra dune, cactus e serpenti a sonagli, alle bottiglie di whiskey e a bellissime donne dagli abiti succinti e quest’etichetta Billy se la porterà dietro anche nella sua carriera solista, con tre album all’attivo.

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Greta Van Fleet – The Battle at Garden’s Gate (Universal Music, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Stefania D’Egidio

Quando ci si accinge a recensire i Greta Van Fleet si corre il rischio di inciampare nella trappola dei paragoni scomodi: infatti già con il precedente lavoro del 2018, Anthem of The Peaceful Army, erano stati massacrati, dal punto di vista mediatico, per la somiglianza della voce di Josh Kiszka con quella di un altro famoso cantante di una nota band (di cui, di proposito, non farò il nome), quasi fosse un crimine anziché una botta di culo che madre natura ti concede. In tanti li avevano accusati di essere squallidi cloni in cerca di identità, così che questo secondo album è arrivato forse troppo carico di aspettative. Uscito il 16 aprile per Universal Music in cd e vinile colorato Tie Dye in edizione limitata, già al primo giorno di ascolto ha sollevato un vespaio, dividendo il popolo del rock, pertanto mi limiterò a parlarvi di The Battle at The Garden’s Gate per quello che è, una raccolta di 12 brani di sano rock’n’roll in stile anni ’70, con incursioni nella psichedelia e, a tratti, nel progressive. Registrato nell’arco di un anno e mezzo a Los Angeles sotto l’abile guida del produttore Greg Kurstin (lo stesso di Foo Fighters, Paul McCartney e Adele), scelto per la sua camaleontica capacità di lavorare a qualsiasi genere, è stato concepito dalla band come qualcosa di grandioso, con l’intento di scrivere la colonna sonora di un film non ancora realizzato, ispirandosi ai loro artisti preferiti, in primis The Kinks e Ennio Morricone.

Gli ingredienti per la riuscita della ricetta ci sono tutti: chitarre acustiche, come in Tears of Rain, e chitarre rocciose, in Built By Nations, in Caravel, il mio pezzo preferito, e in Age of Machine, bel trip rock psichedelico sull’uso della tecnologia, assoli da manuale, fantastico quello del pezzo di chiusura, The Weight of Dreams, sezione ritmica imponente, il tutto benedetto da una voce al di fuori dal comune.
Volevano fare della musica che andasse dai bassi più bassi agli alti più alti e l’obbiettivo è stato centrato in pieno: si va dalle ballad come Heat Above, Broken Bells (e per favore smettetela di dire che assomiglia a Stairway To Heaven) e Light My Love, lento rubacuori con accompagnamento di pianoforte, che mette d’accordo le groupies di ieri e di oggi, a brani dal piglio più frizzantino, come My Way, Soon e Stardust Chords, fino alla psichedelia orientaleggiante di The Barbarians e ai cori celestiali di Trip The Light Fantastic.

Cos’altro si potrebbe desiderare? Forse testi meno semplici e banali, a detta di qualcuno, ma a volte un pò di leggerezza è d’obbligo, specie di questi tempi: provate a immaginare le schiere di analfabeti funzionali, di cui pullulano i social, che tentano di interpretare i testi esoterici e mitologici delle band anni ’70… Inutile girarci attorno: i quattro di Frankenmuth sanno padroneggiare gli strumenti, hanno un innato talento per gli arrangiamenti e una passione per i suoni analogici, anche solo per questo andrebbero lodati e supportati, specie da noi nostalgici; lo avevo già detto a proposito dei Maneskin, lo ripeto per loro: ben venga tutto ciò che serve ad arginare l’avanzata dei barbari trappisti o a risvegliare il rock! Forse The Battle at The Garden’s Gate non sarà l’album che consentirà loro di scrollarsi di dosso l’etichetta di cloni, però ribadisce qual è la strada che vogliono percorrere, già battuta da altri, ma non per questo meno interessante; che vi piaccia o no i Greta Van Fleet sono così, nessuno vi obbliga ad ascoltarli, eppure sarebbe un vero peccato, per gli amanti del genere, lasciarseli scappare per questione di pregiudizi, del resto loro stessi, a chi li critica, rispondono che non gliene frega un c…o: amano fare musica, amano i loro fan e amano anche gli haters, che alla fine sono utilissimi per attirare l’attenzione dei media.

Tracklist:
01. Heat Above
02. My Way, Soon
03. Broken Bells
04. Built By Nations
05. Age of Machine
06. Tears of Rain
07. Stardust Chords
08. Light My Love
09. Caravel
10. The Barbarians
11. Trip The Light Fantastic
12. The Weight of Dreams

 

 

 

 

Classifica dei 50 migliori album del 2020

R E C E N S I O N E


Ci siamo. Siamo arrivati al panettone. Superate le festività natalizie, puntuale come le tasse, ecco il consueto appuntamento con la classifica di fine anno. Tradizione, per noi, vuole che il “listone” sia affidato alla competenza e alla curiosità di Simone Nicastro che ci accompagna in questo viaggio a ritroso lungo un 2020 particolarmente complicato. Isolamento, paura e incertezza hanno rischiato di metterci all’angolo. Abbiamo però una certezza: la musica è un’amica fedele che sa starci vicino anche e soprattutto nei momenti difficili. Cibo per l’anima, ristoro per cuori affamati. C’è tanta buona musica in giro, tanta da affollare ogni nostra giornata. Una classifica è necessariamente parziale e soggettiva, la musica non è una scienza esatta e le emozioni che trasmette sono individuali, però ci auguriamo che sia uno stimolo al confronto. Se ciò avviene abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Vi lasciamo perciò alle parole di Simone. Buona lettura e buona musica!

La redazione

Articolo di Simone Nicastro

Come ogni anno (da un bel po’ di anni ormai) inizia qui il mio percorso di memoria personale e valutazione totalmente soggettiva dell’anno discografico appena trascorso. Anno che, ahimè, sappiamo tutti essere stato fin troppo pieno di dolore e sacrifici. Mai come in questi 12 mesi ringrazio il cielo di essere riuscito ad alimentare, ancora una volta, il desiderio inesauribile di ascoltare e confrontarmi con l’arte musicale, di farmi trasportare da essa e, infine, di non esserne mai sazio.

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Assalti Frontali – 1990-2020 (Daje Forte Daje Tutti Rec, 2020)

R E C E N S I O N E


Articolo di Stefania D’Egidio

Correva l’anno 1990, facevo il V ginnasio: in Medio Oriente scoppiava la prima guerra del Golfo, in Sudafrica veniva liberato Nelson Mandela, moriva Sandro Pertini e venivano ritrovate le lettere di Aldo Moro; tutto questo mentre nella nostra capitale, dalle ceneri del collettivo musicale Onda Rossa Posse, nascevano gli Assalti Frontali. Un periodo di grande fermento artistico per le autoproduzioni e la distribuzione indipendente, soprattutto grazie alla spinta dei centri sociali tanto che, in breve tempo, scoppiava il fenomeno delle Posse, a Roma come nel resto dello stivale, tutte accomunate dall’interesse per l’attualità politica, la controinformazione, l’impegno civile, la cittadinanza attiva e con una forte connotazione antifascista. Dal punto di vista musicale un bel pout purri di rock, punk, funk, reggae e rap che trovò in 99Posse, Africa Unite, Almamegretta, Ustmamò e Casino Royale i maggiori interpreti. Per gli Assalti Frontali dopo due anni dalla nascita arrivò l’album del debutto, Terra di Nessuno, primo Lp rap in italiano, venduto a un prezzo politico di 17.000 lire, quasi mi viene una botta di nostalgia a ripensarci…

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