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La Buissonne

Jean-Charles Richard – L’Étoffe Des Rêves (La Buissonne, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Dimostra un garbo semplice e diretto, il sassofonista francese Jean-Charles Richard, proponendo una musica carica di suggestioni classiche e citazioni letterarie. Si lavora così nell’ambito della riflessione, del silenzio meditativo, con numerose pause scavate tra le note – suonate e recitate – del suo quartetto. L’opera che ne risulta procede senza fretta, con un passo leggero ed attento, fatto di penombre e di rifrazioni quasi liturgiche. Richard proviene in effetti originariamente dal mondo classico ma la sua presenza nel jazz è tutt’altro che secondaria. Su Off Topic ce ne occupammo a proposito dell’album di Jean-Marie Machado Majakka, che vedeva Richard come collaboratore – potete trovare la recensione qui. Il titolo del lavoro su cui ora ci concentriamo, L’Étoffe Des Rêves (La sostanza dei sogni) è una citazione shakespeariana che proviene da “La Tempesta” – “…siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti sogni, e nello spazio e nel tempo di un sogno è raccolta la nostra breve vita…” – ed in effetti altre attribuzioni all’autore inglese ricorrono con la figura di Ofelia, più volte citata in questo album. Vi sono anche riferimenti a Tommaso D’Aquino, a scrittori come il russo Isaac Babel – fatto fucilare da Stalin per presunte attività antirivoluzionarie nel 1941, salvo poi essere riabilitato tredici anni più tardi – fino a poeti come Rimbaud. Inoltre Richard omaggia direttamente musicisti come Messiaen e John Taylor ma vi sono altre dediche più nascoste, disseminate per tutto l’album. I sax imbracciati da Richard, il soprano e il baritono, si alternano in una dimensione spaziale percorsa da radi pensieri malinconici, attraverso sospensioni e rallentamenti continui del flusso musicale che rimandano al periodo storico tra fine ottocento ed inizi novecento. Tra frammenti debussyani ed ulteriori allusioni impressioniste soprattutto per l’apporto pianistico del grande Marc Copland, il tutto risulta frequentemente percorso da scale improntate al jazz e gestite dai fiati dello stesso Richard. Con molta discrezione Vincent Segal al violoncello, sia pizzicato che archettato, si preoccupa maggiormente di legare il piano con il sax e la voce, quest’ultima un gentile contributo della compositrice Claudia Solal, figlia del più noto Martial, uno dei più grandi pianisti al mondo.

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Jeremy Lirola – Mock The Borders (La Buissonne, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Non vorrei che le dichiarazioni di profonda stima verso Ornette Coleman e il titolo Mock the Border (Ridicolizza il Confine) del contrabbassista francese Jeremy Lirola, fossero intesi come elementi fuorvianti e pregiudiziali nell’ascolto di questo album. Perché Coleman, a sei anni dalla propria morte, continua a provocare esantemi allergici a molti amanti del jazz. Il “free”, infatti, secondo alcuni è stato come una meteora, un proiettile vagante senza direzione esplicita. In realtà, per quello che riguarda proprio Mock the Border, non c’è nulla da temere. Nessuna armolodia turberà il pacifico sonno dei puristi e oggi la musica di Lirola sfiora solamente l’universo colemaniano, trovando un perfetto accordo tra le escursioni del free e la musica tonale. Lirola, al suo secondo disco da titolare, sempre per la sorprendente etichetta La Buissonne, comprende come il tema del confine da superare sia già stato affrontato tra i ’60 e i ’70. Arrivati al limite occorre saper voltarsi indietro e procedere semmai in parallelo lungo la frontiera, ritornare di qualche passo, soffermarsi in certe aree trascurate dalla troppa fretta di novità. Insomma cercare qualcos’altro che non sia solo un sistema non-armonico, un “vietato vietare” come unica, vera rivoluzione del futuro. In questo lavoro la ricerca integrativa proposta da Lirola, cioè guardare avanti senza dimenticare la lezione del passato, trova livelli di interessante profondità, frammenti poetici gettati lungo il sentiero, qualcosa che insomma non faccia mai smarrire la strada percorsa. Non è un lavoro semplice, l’album di Lirola, in alcuni momenti sembra che la musica prenda a testate il presente, in altre che vi sia addirittura uno sguardo al passato carico d’una certa nostalgia.

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Andy Emler – No Solo (La Buissonne, 2020)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Che disco meraviglioso è questo!!. Da quanto tempo non si ascoltava un lavoro da cinque stelle ”secche” come No solo di Andy Emler? Una musica fatta per pensare, scendendo uno a uno i gradini della coscienza fino ad arrivare al confine del Grande Mare. Una musica fuggevole come la traccia luminosa lasciata dai fari di un auto. Andy Emler è un pianista e organista parigino che nella sua vita ha scritto molta musica, oltre una cinquantina di partiture per vari strumenti con indirizzi musicali diversi. Ha inciso inoltre più di una trentina di dischi, in parte da titolare, in parte con varie combinazioni tra cui la sua creatura più cara, il MegaOctet, una band composta da vari musicisti che amano improvvisare all’insegna di un affascinante eclettismo sonoro. In questo No Solo Emler è al piano, spesso in solitaria – tanto per smentire parzialmente il titolo dell’opera – accompagnato altre volte da una serie di ospiti che citeremo mano a mano nell’ascolto dei singoli brani dell’album. L’impostazione pianistica, almeno in questo disco, risente moltissimo della impronta classica, con numerosi richiami in filigrana del musicista da Emler preferito, cioè Maurice Ravel a cui dedicò nel 2013 un uscita discografica intitolata My Own Ravel. Aggiungerei un bagaglio di suggestioni ”ambient” che fungono però solo da fondale. Il proscenio è animato, infatti, da una continua invenzione melodica, una raffinata sintassi di periodi assolutamente tonali, quasi senza dissonanze. Insomma non si sconfina mai in acque limacciose, mostrando invece parecchi salti di registro dinamico alternati ad eteree rarefazioni sonore. Teniamo presente che non si tratta di un lavoro onirico né di un viaggio nella pura fantasia ma di una salutare meditazione su sé stessi, un colloquio a tu per tu con il nostro daimon, un open focus che tutti dovremmo organizzare, ogni tanto, riguardo alla nostra essenza più interiore.

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Vincent Lê Quang – Everlasting (La Buissonne, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Si racconta che il sassofonista francese Vincent Lê Quang, quand’era adolescente, rimase colpito dalla visione del film “Bird” che narrava la vita e la musica di Charlie Parker. Non so se questo sia vero ma di sicuro quella pellicola deve aver contribuito, in qualche modo, ad innescare il suo interesse per lo studio del sax. Tuttavia, a giudicare almeno da questo suo primo disco da titolare, pare avere poche cose in comune con Parker. Un sassofono suonato quasi con la stessa delicatezza di un flauto ci trasporta in una dimensione di eterea, intima profondità, lontano anni luce dalle intransigenti, nervose velocità di Bird. La meditazione che sta alla base di questo Everlasting parte dal conflitto presente in ogni essere umano nel cercare di realizzarsi e di proiettare le proprie speranze in un futuro che si vorrebbe eterno e immutabile. Davanti alla prova evidente, invece, di come la realtà sia impermanente e mutevole, questo desiderio recondito di eternità resta nascosto in un angolo della coscienza e quasi ci si vergogna di esibirlo, come fosse un capriccio infantile… Sublimando questa pulsione, Lê Quang va alla ricerca delle tracce nascoste, dei segni lasciati da un’eternità di carattere divino, seguendo un percorso fatto di memorie, di segni ambigui, spesso misteriosi ed onirici con cui la Realtà alle volte ama mescolarsi. Un’ermeneutica che attraverso gli impulsi sonori e l’ordine armonico cerca di interpretare la vita nel suo senso più profondo. Un altro illuso alla ricerca del significato dell’esistenza? Di certo, quello che so è che ogni Parsifal che si metta in cerca del Sacro Graal, che lo trovi oppure no, mostra di sé il suo lato migliore, le più luminose qualità che possiede, vivendo fino in fondo l’intensa epopea della propria vita.

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Jean-Marie Machado – Majakka (La Buissonne, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Nato in Marocco da genitori europei, Jean-Marie Machado è un pianista che dimostra manifestamente le sue origini familiari. Di matrice classica ben avvertibile, frutto di un’educazione musicale tutta francese, Machado è compositore molto raffinato, di grande esperienza, con alle spalle più di una quindicina di uscite discografiche, in parte come titolare e parte come collaboratore. Ha suonato accanto a gente come Paul Motian, Paolo Fresu, David Liebman, ha scritto composizioni per orchestra e si è cimentato in progetti multidisciplinari che includono anche teatro e danza. In questa sua ultima prova, registrata in Provenza a Pernes-les-Fontaines nello studio La Buissonne, egli mira a sviluppare un discorso musicale già parzialmente avviato da artisti come il tunisino Anouar Brahem e il libanese Rabih Abou-Khalil. Sulla strada tracciata da questi musicisti viene, di fatto, costruita una composizione globale con un’impronta più occidentalizzata che vola su melodie e ritmiche ibride ricche di suggestioni arabo-meditarranee le quali si rapportano a forme jazzistiche ed acustiche più contemporanee. Il trio che accompagna Machado al piano, in questo Majakka, è composto dai sassofoni e dal flauto di Jean-Charles Richard, dal violoncello di Vincent Segal e dalle percussioni di Keyvan Chemirani

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