R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Si racconta che il sassofonista francese Vincent Lê Quang, quand’era adolescente, rimase colpito dalla visione del film “Bird” che narrava la vita e la musica di Charlie Parker. Non so se questo sia vero ma di sicuro quella pellicola deve aver contribuito, in qualche modo, ad innescare il suo interesse per lo studio del sax. Tuttavia, a giudicare almeno da questo suo primo disco da titolare, pare avere poche cose in comune con Parker. Un sassofono suonato quasi con la stessa delicatezza di un flauto ci trasporta in una dimensione di eterea, intima profondità, lontano anni luce dalle intransigenti, nervose velocità di Bird. La meditazione che sta alla base di questo Everlasting parte dal conflitto presente in ogni essere umano nel cercare di realizzarsi e di proiettare le proprie speranze in un futuro che si vorrebbe eterno e immutabile. Davanti alla prova evidente, invece, di come la realtà sia impermanente e mutevole, questo desiderio recondito di eternità resta nascosto in un angolo della coscienza e quasi ci si vergogna di esibirlo, come fosse un capriccio infantile… Sublimando questa pulsione, Lê Quang va alla ricerca delle tracce nascoste, dei segni lasciati da un’eternità di carattere divino, seguendo un percorso fatto di memorie, di segni ambigui, spesso misteriosi ed onirici con cui la Realtà alle volte ama mescolarsi. Un’ermeneutica che attraverso gli impulsi sonori e l’ordine armonico cerca di interpretare la vita nel suo senso più profondo. Un altro illuso alla ricerca del significato dell’esistenza? Di certo, quello che so è che ogni Parsifal che si metta in cerca del Sacro Graal, che lo trovi oppure no, mostra di sé il suo lato migliore, le più luminose qualità che possiede, vivendo fino in fondo l’intensa epopea della propria vita.

Lê Quang non è un novellino, ha alle spalle un’intensa attività di musicista compositore, allargando le sue ali fino a coprire generi musicali diversi ed avendo un curriculum ricco di esibizioni concertistiche. Le sue collaborazioni sono numerose con molti nomi affermati del jazz francese ed europeo – Daniel Humair, Aldo Romano, Henri Texier, tra gli altri, e quel Jean-Marie Machado di cui già recensimmo il suo ottimo Majakka. In questo disco Lê Quang è accompagnato da un pianista come Bruno Ruder, che conosce bene per avere diviso con lui diverse esperienze discografiche e concerti fin dal 2003, e dall’espressiva batteria di John Quitzke, nonché dal contrabbasso di Guido Zorn. L’intero lavoro è un continuo gioco in levare affinché possa germogliare un’arte con molti spazi e silenzi dentro i quali i musicisti cercano la loro propria dimensione. Una bellezza in divenire ma non un miraggio, bensì un ideale quasi a portata di mano – basta saper ascoltare e attendere. Ci sono molte lune misteriose che ruotano attorno a questi suoni, vapori di idee che talora non prendono forma per la loro levità, così è questa musica, che alle volte s’accende in brevi momenti e poi torna a rinchiudersi in una sua solitaria, serena segretezza. Lo stile di Lê Quang è personale, con quel suo moderato soffiare per ottenere un suono rotondo ma scarno nella sua delicatezza, senza spigoli, senza curve improvvise o repentini cambi direzionali. Per certi versi può ricordare qualcosa di Wayne Shorter o, in alcuni momenti di riflessione, qualche aspetto introversivo di Lee Konitz, ma si tratta di appunti ideali, osservazioni aggiuntive per cercare di inquadrare un assetto solistico molto peculiare.
L’odeur du buis, primo brano della raccolta, è quasi un manifesto programmatico, con i suoni rarefatti, spaziati, distanti tra loro come se volessero ascoltarsi l’un l’altro ancor prima di pronunciarsi. Attorno alla melodia impostata dal sax fiorisce un’architettura improvvisata del piano, il contrabbasso con l’archetto, qualche percussione ad evocare un ritmo nascosto. Lo splendido arpeggio del piano apre La Fugueuse su cui il fiato s’inserisce come una passeggiata in un giardino fiorito, quasi stupefatto dalla bellezza del paesaggio. Musica estremamente malinconica, siamo vicini a sfiorare la tristezza, ma ecco Fleur col suo profumo di fragranti dolcezze. Gli odori sono la meccanica più veloce per far affiorare i ricordi, quelli che appaiono all’improvviso e che precedono addirittura i pensieri. Bellissimo il pianoforte, come sempre sarà in questo disco, suonato solamente con sporadiche dissonanze a ricordarci che siamo a pieno diritto nella nebulosa del jazz ma in un territorio periferico, dove lo spazio si scurisce nelle profonde lontananze dei suoi confini. L’eternità, invocata dal titolo del disco, appare per la prima volta come un’intuizione, come un riflesso. Ed ecco, allora, la volta di Everlasting. La nota “sol” ribattuta dalla mano sinistra del pianista è il bordone che prosegue all’infinito, è la simbolica forma dell’eternità che resta uguale a sé stessa, nonostante attorno ruotino altre note, altri pianeti. Il sax soprano corre immerso nella Rivelazione, esprimendo una gioia contenuta e consapevole, fino all’esaurimento dello stimolo nello spegnimento, in lontananza, della nota originaria. Novembre arriva sulle solitarie note del contrabbasso e il sax racconta lo spogliarsi della Natura, mentre le spazzole, col loro sfregamento, inducono ad immaginare un passo nella neve o il rumore della pioggia che cade. Il dialogo sassofono-pianoforte è un racconto di confidenze intime, quelle che si fanno tra amici più vicini. Impressioni, foto in bianco e nero, freddo atmosferico esorcizzato dal calore del dialogare. Une danse pour Wayne sembra un valzer celato da una nebbia strumentale che lo fa affiorare saltuariamente, Se si tratta, come penso, di un omaggio a Shorter c’è proprio da rilevare che è il brano più squisitamente jazz dell’intero album e forse anche quello che personalmente preferisco tra tutti. A rebours, ovvero “conto alla rovescia”. Piano in solitudine, poche note ben posizionate. Il Tempo scorre, avanza verso di noi con l’implacabilità di uno schieramento di opliti e l’eternità, in questo caso, passa obbligatoriamente attraverso la fine dell’esistenza. Dans le boite a clous tous les clous sont tordus dimostra un sax mai così implicito e delicato, la musica è un inno alla rarefazione sonora, la scrittura è poco più che essenziale, affiora qua e là qualche sentimento d’inquietudine, con il piano e il contrabbasso che cercano dissonanze e creano saltuarie distopie emotive. Con Le reve d’une ile s’incrementano le discordanze pianistiche, la musica si slega, si sfilaccia e crea l’impressione di aver perso la direzione, di non conoscere esattamente la propria posizione. Perduti, abbandonati sull’isola sognata? È il brano meno convincente di tutto il lavoro, ma poco male. Rayon violet è uno stupore improvviso, segno misterioso. Una traccia, forse, un simbolo. Unaccounted-for-pasts si presenta come una ballad, con lo stesso mood, ed è ricca d’armonie classiche, quelle notturne alla Jimmy Heath con i marciapiedi bagnati di pioggia che riflettono le luci della città. Qui possiamo realizzare il grande amalgama sonoro e l’intesa emotiva tra i musicisti e capire cosa s’intenda per “rapimento”. Voglio sottolineare, tra tutto, il grande lavoro di Ruder che sgrana grappoli raccolti di note, sempre calibrate, sintetiche, pulite nella loro essenzialità. Chiude Everlast all’insegna del minimalismo. È un bell’altopiano spirituale su cui siamo giunti, alla fine dell’ascolto di quest’ultimo brano. ”Da qui, messere, si domina la valle” diceva Francesco Di Giacomo in una celebre canzone del Banco. Da qui, in effetti, ogni cosa sembra più bella. Eterna, nella sua Bellezza.
Tracklist:
01. L’odeur du buis
02. La fugueuse
03. Fleur
04. Everlasting
05. Novembre
06. Une danse pour Wayne
07. A rebours
08. Dans la boite à clous tous les clous sont tordus
09. Le reve d’une ile
10. Rayon violet
11. Unaccounted-for-pasts
12. Everlast
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