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Mark Turner

Tigran Hamasyan – StandArt (Nonesuch Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Misurarsi con gli standard, per un jazzista, è qualcosa di più che un puro divertimento fine a sé stesso. Non dare per scontata una qualsiasi melodia significa riviverla, riassaporarla e spesso riarmonizzarla, a volte rendendola quasi irriconoscibile ad un orecchio non ben allenato. Una strada preordinata, certo, ma non segnata da alcun limite di transito né di velocità. Occuparsi di uno standard può voler dire anche recuperare il senso storico di una musica, come il jazz, che ha inglobato diverse istanze culturali, dall’emarginazione nera all’accademia della borghesia bianca, dal blues alla canzone sentimentale e infine al rock. Ultimamente poi – come dimostra il penultimo album dello stesso Hamasyan, The Call Within – l’area di assemblaggio si è allargata sempre più, includendo stimoli che vengono da tradizioni popolari europee che non hanno niente da spartire con l’originale cultura afro-americana. Ancora più soddisfazione possono dare brani non considerati propriamente degli standard a tutti gli effetti che magari non compaiono nemmeno nei Real Books. Reperti di un’archeologia emozionale, quindi, passati in secondo piano con le mode e riammessi poi sotto i riflettori tra le dita di un musicista che sa ridare loro una nuova vita. Non sorprende quindi che un pianista affermato e famoso come Tigran Hamasyan, dopo aver testato varie possibilità nella sua musica, dalle lunghe passeggiate modali di A Fable del 2011 fino ai mescolamenti sonori più fantasiosi di The Call Within del 2020, decida ora, dopo più di dieci anni di “vagabondaggio” musicale e undici dischi usciti a suo nome – senza contare tre EP editati dal 2011 al 2018 – di dedicarsi agli standard con il suo ultimo album dall’intrigante titolo StandArt. Hamasyan sottopone queste musiche non tanto ad un processo di mascheramento quanto, a volte, ad un vero e proprio “sabotaggio” delle strutture portanti, spesso modificando gli intervalli tra un accordo e l’altro, alterandone l’andamento ritmico e ripensando il brano, com’è lecito che sia, secondo il proprio istinto e sensibilità. Il risultato ottenuto è una stratificazione di piani emotivi diversi, dalle extrasistolie nervose, quasi ossessive di I Did’nt Know What Time It Was alle sognanti, fiabesche atmosfere di All the Things You Are, transitando così da eccentriche parti strumentali – Laura – ai tempi declinanti di arcana tristezza come in I Should Care. Il fatto è che Hamasyan, immigrato “benestante” dall’Armenia, ha probabilmente preso atto dello jato sociale che negli Stati Uniti – non è una critica ma una constatazione – resta ben tracciabile tra le varie classi d’appartenenza, bianchi, neri, latini, asiatici ecc…

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Mark Turner – Return From The Stars (ECM Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una disanima ragionata di questo Return from the stars ci porta a riflettere sulle caratteristiche compositive di Mark Turner, titolare di questa ultima uscita ECM realizzata in quartetto. Come lui stesso afferma, la sua scrittura, stilata soprattutto per le linee degli ottoni, non dà molte indicazioni alla ritmica del suo gruppo se non quelle minime essenziali. Riponendo la massima fiducia nella sensibilità e creatività altrui, Turner lascia che i suoi temi inneschino uno sviluppo che si renda via via più autonomo. Tuttavia l’ordine estremo che ne risulta farebbe pensare ad un rigore anche maggiore di quello che si voglia far credere. Non si ascoltano acrobatismi ammiccanti, improbabili prove dimostrative d’abilità strumentale ma siamo di fronte, invece, ad un’opera molto matura e moderna, una meditata esperienza d’assieme che merita di più che un’abituale doverosa attenzione. Come spesso succede, in questi ultimi tempi, si fa fatica a definire molta musica di questo tipo come “jazz”. L’impressione che questo attributo cominci ad andare stretto a certi artisti, da un lato eccita l’immaginazione e fa scaturire una domanda assolutamente lecita: quale direzione sta prendendo la musica contemporanea? Pian piano sono sempre meno frequenti le memorabilia del passato e davanti al nuovo, com’è in questo caso, ci si trova sull’orlo di uno spazio in via di esplorazione, proprio quello che Turner e compagni stanno compiendo per questo Return. Cominciamo dal titolo “fantascientifico”. Effettivamente esso proviene da un racconto dello scrittore di science-fiction Stanislaw Herman Lem che gli amanti del genere sicuramente conoscono per essere stato l’autore di Solaris, testo da cui il regista Tarkovskij trasse nel 1972 l’omonimo film. L’astronauta che “ritorna dalle stelle” è forse il modello comportamentale simbolico che più si avvicina a Turner, cioè un viaggiatore cosmico alla ricerca di uno spazio musicale inesplorato che fatica a riadattarsi, al suo ritorno, ad un certo conformismo compositivo. La musica che ne consegue è un azzardo collagistico di timbri, melodie, ritmi che pur muovendosi in ambito tonale dimostra una scintillante intelligenza strutturale. Quasi un modulo che parte dalla spettralità del Miles Davis dei primi ’60 per trovarsi, una volta detronizzato il modello ispirativo, a fondare una colonia di suoni nuovi, organizzandosi attorno agli incroci frequenti tra il sax dello stesso Turner e la tromba fosforescente di Jason Palmer.

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Benoit Delbeq 4 – Gentle Ghosts (Jazzdor Series, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Dobbiamo all’intercessione dello scomparso pianista Mal Waldron se Benoit Delbecq, l’artista francese di cui ci occupiamo in questo contesto, ha scelto definitivamente la carriera musicale a discapito del suo lavoro di ingegnere del suono. Certo, sarebbe troppo facile giustificare l’assetto del suo pianismo tracciando uno scontato parallelismo coi suoi studi tecnico-scientifici ma certo è che l’astrattismo della sua musica, espressa in termini geometrici piuttosto rarefatti e talora convulsi, qualche sospetto di sconfinamento di ruoli lo pone. Tanto più che Delbecq stesso si serve di un intervento elettronico che causa degli sfasamenti temporali nel risultato complessivo della sonorità, dando l’impressione di sovrapposizione di linee e di forme che rendono questo Gentle Ghosts conditodi riverberi e auree spettrali. La combinazione di questa formazione di strumentisti nasce gradualmente, con John Hebert e Gerald Clever, rispettivamente contrabbasso e batteria dell’ultimo Andrew Hill, che si uniscono in trio appunto con Delbecq nel 2008, includendo in un secondo tempo il sassofonista tenore Mark Turner. Nel 2016 il quartetto così formato si esibisce al mitico Cornelia Street Cafe nel West Village di New York per arrivare infine nel 2019, dopo un lungo tour europeo, ad incidere questo album in una sessione di solo un giorno al Midi Live studio presso Parigi. L’impronta sonora di Delbecq pare oscillare tra Monk e Paul Bley ma direi che il suo pianismo sembra molto più vicino al secondo per la scelta frequente di larghi spazi tra le note, con quegli accordi che talora cadono svagati sulla tastiera e che invece costituiscono gli spot essenziali della sua arte “informale”.

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Fly Trio feat. Ballard, Turner, Grenadier @ Blue Note, Milano – 17 gennaio 2018

Live report ed immagini sonore di Elisabeth Petrone

Garbo!
Una serata che si è svolta con garbo quella di mercoledì 17 gennaio al Blue Note con il Fly Trio sul palcoscenico.
Il gruppo comprende Mark Turner al sassofono, il cui suono richiama lo stile di Warne Marsh e John Coltrane e cattura l’attenzione con una musica narrante composta da improvvisazioni e momenti di esibizione da solista che si fondono con gli altri elementi della band.
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