R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una disanima ragionata di questo Return from the stars ci porta a riflettere sulle caratteristiche compositive di Mark Turner, titolare di questa ultima uscita ECM realizzata in quartetto. Come lui stesso afferma, la sua scrittura, stilata soprattutto per le linee degli ottoni, non dà molte indicazioni alla ritmica del suo gruppo se non quelle minime essenziali. Riponendo la massima fiducia nella sensibilità e creatività altrui, Turner lascia che i suoi temi inneschino uno sviluppo che si renda via via più autonomo. Tuttavia l’ordine estremo che ne risulta farebbe pensare ad un rigore anche maggiore di quello che si voglia far credere. Non si ascoltano acrobatismi ammiccanti, improbabili prove dimostrative d’abilità strumentale ma siamo di fronte, invece, ad un’opera molto matura e moderna, una meditata esperienza d’assieme che merita di più che un’abituale doverosa attenzione. Come spesso succede, in questi ultimi tempi, si fa fatica a definire molta musica di questo tipo come “jazz”. L’impressione che questo attributo cominci ad andare stretto a certi artisti, da un lato eccita l’immaginazione e fa scaturire una domanda assolutamente lecita: quale direzione sta prendendo la musica contemporanea? Pian piano sono sempre meno frequenti le memorabilia del passato e davanti al nuovo, com’è in questo caso, ci si trova sull’orlo di uno spazio in via di esplorazione, proprio quello che Turner e compagni stanno compiendo per questo Return. Cominciamo dal titolo “fantascientifico”. Effettivamente esso proviene da un racconto dello scrittore di science-fiction Stanislaw Herman Lem che gli amanti del genere sicuramente conoscono per essere stato l’autore di Solaris, testo da cui il regista Tarkovskij trasse nel 1972 l’omonimo film. L’astronauta che “ritorna dalle stelle” è forse il modello comportamentale simbolico che più si avvicina a Turner, cioè un viaggiatore cosmico alla ricerca di uno spazio musicale inesplorato che fatica a riadattarsi, al suo ritorno, ad un certo conformismo compositivo. La musica che ne consegue è un azzardo collagistico di timbri, melodie, ritmi che pur muovendosi in ambito tonale dimostra una scintillante intelligenza strutturale. Quasi un modulo che parte dalla spettralità del Miles Davis dei primi ’60 per trovarsi, una volta detronizzato il modello ispirativo, a fondare una colonia di suoni nuovi, organizzandosi attorno agli incroci frequenti tra il sax dello stesso Turner e la tromba fosforescente di Jason Palmer.

Questi musicisti sono entrambi sostenuti dall’inesauribile inventiva della ritmica, cioè il contrabbasso di Joe Martin – già con Turner per la stessa etichetta di Eicherin Lathe of Heaven – e la batteria di Jonathan Pinson. Turner ha in precedenza molto collaborato con ECM, prestando ad esempio il suo sax all’album con Enrico Rava e Stefano Bollani – New York Days nel 2017 – e al lavoro in duo col pianista Ethan Iverson in Temporary Kings del 2018. Non bisogna dimenticare altresì le collaborazioni con Brad Mehldau per la Warner ed altre ancora per esempio con Kurt Rosenwinkel e Larry Grenadier. Ma è con la formazione a quartetto che secondo me Turner riesce a sviluppare il meglio dei suoi progetti musicali, sia che questo avvenga con la tromba di Avishai Cohen nel già citato Lathe of Heaven o con Palmer come succede per Return from the Stars.

La title track dell’album, posta proprio in apertura dello stesso, sollecita alcune considerazioni “matematiche”. Turner crea un “campo”, cioè uno spazio figurato in cui avvengono degli eventi musicali. Ciascun strumento si armonizza con l’altro attraverso un percorso non così lineare, formando quasi delle figure geometriche che mescolandosi tra loro creano una struttura più organizzata, cristallina, sempre in evoluzione costante. Una “concinnitas” di immagini talora speculari, dai colori morbidi e dai suoni avvolgenti. Per esempio la traccia di apertura si apre con un tema condotto dalla tromba ed armonizzato dal sax dentro cui contrabbasso e batteria sistemano una punteggiatura raffinata. Tutto si svolge con un fine controllo delle dinamiche, un equilibrio di masse sonore che appare centellinato al millimetro. Ad un certo punto, mentre il tema viene ripetuto, si avverte il sax di Turner che sale di registro svincolandosi e innescando l’assolo a cui fa seguito, quasi seguendo un’interiorizzata simmetria, quello della tromba di Palmer. Segue un dialogo via via più serrato tra i due fiati fino alle battute finali in cui sax e tromba si allacciano in una danza conclusiva, ri-armonizzandosi a vicenda. Terminus inizia in sordina con un’intro di basso e batteria prima che lo stesso schema praticato nel brano precedente si ripeta. Sempre tromba e sax tracciano il percorso, quasi in contrappunto, con la ritmica a far da sostegno. Il clima è più o meno identico, l’atmosfera fin qui creatasi non viene tradita anche se nell’improvvisazione, peraltro assolutamente ben condotta e continuamente armonizzata tra i due fiati, i due strumenti principali paiono avvertire l’esigenza di una maggiore corsa individuale, con qualche spazio in più e qualche pausa maggiormente sottolineata. Si finisce sommessamente, quasi facendo mormorare tutti gli strumenti. Bridgetown si permette un ritmo leggermente più rapido e discontinuo ma la struttura portante si ripete ancora una volta. Temi condotti dai fiati e il sapiente incedere ritmico ne sono gli ingredienti. Un bell’assolo di contrabbasso, dinamico, mobilissimo, sembra ad un determinato punto diventare esso stesso il centro di riferimento della composizione mentre i due fiati se ne stanno al margine. Quando Turner decide di uscire allo scoperto ecco il suo sax trovare una linea d’improvvisazione fraseggiando con continuità tra una linea melodica e l’altra, portandosi ai limiti della tonalità fondamentale e mantenendo quella timbrica di assoluta morbidezza sonora – forse anche con una particolare attenzione in sala d’incisione –  che ne caratterizza il profilo. It’s not Allright with Me esordisce con un tema di sax che mi ha casualmente ricordato la melodia di un noto “tormentone” di Suzanne Vega. Qui sax e tromba innescano il loro abituale ruolo discorsivo anche se è più difficile capire chi conduce principalmente la linea tematica perché la sovrapposizione tra i due fiati è talmente omogenea che non si riesce a prescindere da quest’impronta d’assieme. I lunghi assoli dei fiati occupano gran parte dello spazio a disposizione ma consentono all’ascoltatore di farsi un’idea più completa – se ce ne fosse stato ancora bisogno – riguardo la perizia strumentale di Turner e Palmer, veramente entrambi in stato di grazia.

Nigeria II resta in linea con la struttura di base già descritta nei brani precedenti ma qui il ritmo si fa decisamente be-bop, sia nelle evoluzioni strumentali di tromba e sax, sia nell’accompagnamento ritmico con un contrabbasso che più “bop” non si può. Il pezzo è velocizzato, quindi, e si conclude addirittura con un classico sincrono tra Palmer e Turner, quasi un omaggio alla coppia Parker- Gillespie del tempo che fu. Waste Land recupera silenzi più meditativi con sax e tromba che diluiscono i suoni in tempi più lunghi. L’orizzonte degli eventi si fa più largo, il contrabbasso fa avvertire lo sfregamento dell’archetto sulle corde, contribuendo alla sensazione percepibile di maggior rilassatezza. Unica anomalia volutamente introdotta, probabilmente per non infiacchire eccessivamente il brano, sono gli interventi nervosi della batteria che setaccia la linea melodica, incuneandosi tra le pause e mantenendo comunque alto il metabolismo basale del pezzo. Unacceptable si presenta con un curioso inizio che rimanda a qualche accenno di medio-orientalismo per poi riorientarsi nell’ormai collaudato universo schematico di quest’album. Colloqui serrati tra i due fiati fino all’assolo sempre effervescente del sax ma in questa circostanza colpisce la trama percussiva potente e variopinta del batterista. Un secondo accenno alle note dell’incipit del brano precede l’intervento della tromba, a lungo preannunciato da un invito quasi seducente del sax che accompagna Palmer in un giro di danza prima di cedergli il palcoscenico. Chiude il contrabbasso in solitudine, offrendo al pezzo in questione un alone di indefinibile mistero. Lincoln Heights è un pezzo moderato che avanza con un incedere lento, quasi con un tono di mestizia. Un bel tema dentro cui ad un certo punto si agita il contrabbasso molto inquieto, come uno strumento in gabbia. La fine dell’album è affidata quindi ad un andamento più tradizionale, quasi a ricucire le trame modernissime di questo lavoro con qualche frammento del passato, forse alla ricerca, dopo tutto, di una certa continuità con l’eredità culturale del jazz più classico.

Come testimoni di una bellezza iniziatica, assistiamo dunque a questa musica carismatica, contemporanea, ben costruita e comunque completamente accessibile, che non ha bisogno di dissacrare né distruggere ma solo di realizzare qualcosa di realmente nuovo e differente. 

Tracklist:
01. Return from the Stars
02. Terminus
03. Bridgetown
04. It’s Not Alright With Me
05. Nigeria II
06. Waste Land
07. Unacceptable
08. Lincoln Heights