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Bill Laurance & Michael League – Where You Wish You Were (Act Records, 2023)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

È da un po’ che facevo la posta a questo disco, Where you Wish you Were del duo Laurance- League. Innanzitutto per la copertina dell’album – finalmente qualcosa di decoroso nel tristo panorama grafico della ACT – e poi naturalmente per l’interessante accoppiata del duo proveniente dagli Snarky Puppy, il pianista Bill Laurance e il polistrumentista e bassista Michael League. Ma al di là dell’ovvio riconoscimento della caratura tecnica di questi musicisti e della loro indubbia capacità creativa, il mio svalvolato cuore Byrdsiano ha battuto ritmi più felici quando Laurance prima e League poi hanno collaborato con David Crosby, chiudendo un cerchio generazionale originatosi alla fine dei ’60 e conclusosi qualche settimana fa, con la morte dello stesso. Quindi una serie di buone motivazioni che mi hanno indotto a prestare la dovuta attenzione a questa particolare miscellanea di suoni, visto che accanto al pianoforte s’alternano i diversi strumenti utilizzati da League e cioè alcuni cordofoni tradizionali come l’oud e lo ngoni originario del Mali, più la chitarra acustica e l’elettrica baritono entrambe fretless, cioè senza la tastiera segnata dalle usuali traversine metalliche. Naturalmente anche il basso elettrico, lo strumento d’elezione all’interno dell’economia S.P, compare nella dotazione di League che dimostra una capacità di adattamento al climadi ogni strumento invidiabile. Sebbene egli ammetta di avere un approccio con l’oud più istintivo che tecnico, uno stile rimastogli impresso forse dai ricordi delle origini greche della sua famiglia, il risultato ottenuto non perde un grammo di quella modesta nudità essenziale che lo oud possiede per natura. Così come la dimensione evocativa che rimanda giocoforza ad immagini paesaggistiche medio-orientali che ben si sposano con gli altopiani spirituali raggiunti dal pianoforte. La relativa povertà strumentale a cui la coppia di Autori si è qui consacrata è cosa molto diversa dalla usuale e coinvolgente baraonda strumentale degli Snarky Puppy e la capacità di raggiungere i momenti lirici e rarefatti che ritroviamo in questo album è, a mio parere, resa possibile anche per il duraturo rapporto d’amicizia che lega i due strumentisti, datato addirittura prima del 2006, anno della pubblicazione dello primo disco degli stessi Puppies. La capacità di entrare in risonanza emotiva l’uno con l’altro crea un sospeso, caldo magnetismo che si espande all’ascoltatore avvolgendolo come un soffio d’aria vibrante. Le composizioni si svolgono in una misura essenziale, con linee melodiche addolcite ben al di qua dell’instabile confine della contemporaneità, anzi, a ben vedere questa è una musica che aggira il Tempo e si cala in uno spazio senza memoria geografica, al di là di ogni moda e tendenza.

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Esbjörn Svensson – HOME.S. (Act Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Amare è ritrovarsi”, diceva Sigmund Freud ispirandosi ad un’antica citazione platonica. Ma la sua affermazione non aveva nulla da spartire con l’idealismo del filosofo ateniese, mirando piuttosto a sottolineare il rispecchiamento un po’ narcisistico delle persone che si amano, quando si riflettono pienamente una nell’altra. Questa sensazione di “ritrovamento” deve averla in qualche modo avvertita anche Eva Svensson, ripescando casualmente una registrazione casalinga effettuata in solitudine dal marito Esbjorn pochi mesi prima della sua morte accidentale, avvenuta quattordici anni fa. Un messaggio senza parole che viene dall’Altrove, nove brani di solo piano da leggersi con intelletto d’amore, cioè avendo l’accortezza di lasciarsi condurre, in questo strano e inaspettato re-incontro, dalla luce del cuore, piuttosto che dall’esegesi della ragione. Il fatto è che di Esbjorn Svensson come solista avevamo solo qualche istantanea raccolta qua e là, cito a memoria per esempio una parziale presenza in Behind the Stars da 301 (2012) pubblicato postumo, Evening in Atlantis da Seven Days of Falling (2003) o ancora Decade da Leucocyte (2008), anch’esso editato poco dopo la morte dell’autore. Questo perché il lavoro col suo trio – Dan Berglund al contrabbasso e Magnus Ostrom alla batteria – l’aveva da sempre assorbito si può dire totalmente, quasi che questa formazione rappresentasse una vera e propria estensione vitale e necessaria del suo stesso animo. Perciò, il ritrovamento di alcune incisioni domestiche, pubblicate da ACT con il titolo HOME.S, apre un capitolo aggiuntivo alla figura del carismatico pianista svedese. Esbjorn Svensson Trio, gruppo che frequentemente citiamo su Off Topic per il suo ruolo seminale, ha influenzato almeno una generazione di formazioni pianistiche triadiche, soprattutto quelle provenienti dal nord Europa ma non solo. Dopo aver arricchito una musica geneticamente vessillifera del bebop con spunti classici, elettronici, pop e rock e avendo avuto l’accortezza di filtrare tutto attraverso una sensibilità contemporanea, il gruppo ha masticato a lungo e ben digerito decenni di tradizione pianistica jazz che si sono sovrapposti agli elementi sopra menzionati. Questa raccolta di nove brani, originariamente senza nome – sono comunque qualcosa di più di una semplice annotazione musicale – sono stati poi in un secondo tempo titolati dalla stessa moglie dell’Autore con le prime rispettive nove lettere dell’alfabeto greco antico, una sorta di omaggio all’interesse per la cultura ellenica dimostrato in vita dal consorte. Cosa possiamo distillare, dunque, da queste tracce? Certamente esse mostrano gran parte del profilo intimo e personale di Svensson, un’aristocratica malinconia di fondo su cui si sovrappongono ricordi di un pianismo classico legato soprattutto al periodo barocco e romantico, riflessioni Jarrettiane, brevi flash new-age e tensioni dinamiche quasi progressive. Sappiamo che il pianista svedese non era solo un improvvisatore e probabilmente gran parte delle idee emergenti in questo disco provengono da forme precedentemente composte su partitura, anche se abbiamo spesso l’impressione che i suoi spunti vengano per lo più riarrangiati, in seconda battuta, in una dimensione creativa sperimentalmente estemporanea. Il sentimento che anima tutto questo si manifesta attraverso un percorso fortemente melodico che perdura per tutto l’album e il messaggio musicale che ne risulta, alfine, sembra provenire da una fenditura del Tempo, là dove un ordine spirituale superiore guidi il pianista attraverso un progressivo disvelamento di sé.

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Marius Neset – Happy (Act Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono trascorse poche settimane da quando Off Topic si è occupata dell’ultimo lavoro di Arild Andersen Group, Affirmation – la recensione potete trovarla qui. Qualcuno probabilmente si ricorderà che uno dei collaboratori di Andersen nel disco sopra citato è un giovane sassofonista trentasettenne norvegese – anche se vive da tempo in Danimarca – Marius Neset, di cui oggi ci occupiamo riguardo l’ultimo album da lui realizzato con il sintetico titolo Happy. Neset è arrivato al nono disco come titolare, decimo se consideriamo anche Suite for the Seven Mountains pubblicato insieme al gruppo People Are Machines peraltro fondato dallo stesso sassofonista. In aggiunta vanno rimarcati gli affiancamenti, oltre che ad Andersen, anche a Lars Danielsson – Sun Blowing (2016) – e Daniel Herskedal – Neck of the Woods (2012), senza dimenticare numerose altre collaborazioni sostenute durante la propria attività live. Nella recensione di Andersen si era parlato in termini piuttosto elogiativi di Neset, collocandolo, riguardo i suoi specifici riferimenti musicali, tra Michael Brecker e Jan Garbarek. Anche se penso di poter confermare, almeno parzialmente, quanto detto in quel commento, debbo comunque aggiungere che il nostro giovane sassofonista non segue integralmente l’ipse dixit di quei maestri, dimostrando un eclettico ventaglio d’influenze che rimarcheremo strada facendo ma anche, naturalmente, riuscendo a focalizzare qualcosa in più del suo profilo personale. Infatti Neset ha dimostrato di saper indossare abiti solistici ma anche orchestrali e classici, come hanno evidenziato i lavori di scrittura per la London Sinfonietta – Snowmelt (2016) – e la Bergen Filarmonica – Manmade (2022). Il titolo dell’album, Happy, suggerisce un particolare atteggiamento verso ciò che Neset mi sembra possa considerare come sinonimo di felicità, cioè quella libertà che gli rende possibile attraversare stili e stati d’animo mutevoli e quindi aggirarsi in una sorta di paese delle meraviglie, cioè in un territorio musicalmente illimitato, esplorando tutte o quasi le possibilità che gli si presentano. Quindi, transitando tra jazz – con qualche momentaneo inserto free – e fusion, funk, soul e qualcosa di pop-rock, Neset si concede una dimensione escapista dal pensiero omologante proprio in virtù di questa sua forte curiosità e attrazione nei riguardi di forme musicali lontane dal jazz. Il suo sassofono possiede una voce timbricamente flessibile, piena di colore, accompagnata dalla tecnica ineccepibile dei suoi collaboratori per mezzo dei quali i brani presenti in Happy si sfrangiano in mille rivoli e si ricompongono in una congerie di ondosi flussi unitari di musica. Il tono di base rilascia un certo profumo di ottimismo, oltre a diventare a tratti sonicamente imprevedibile e piacevolmente cangiante. Accanto al sassofono tenore e soprano di Neset suonano Elliot Galvin, molto efficace alle tastiere, Manus Hjorth al piano, Conor Chaplin al basso elettrico, Anton Eger alla batteria ed alle percussioni.

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Vincent Peirani – Jokers (Act Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Vincent Peirani, ovvero l’eclettico. Il costruttore di reticoli melodici inaspettati, lo sperimentatore “gentile” a cui piace pescare idee in territori sempre diversi, anche lontani dalla sua mentalità di navigato jazzista. Alla ancor fresca età di 42 anni Peirani si butta a capofitto in una costruzione “a trois” come quella che edita questo nuovo disco, Jokers. Ma in questa circostanza, con la sua fisarmonica, imbastisce una formazione anomala, insieme al chitarrista italiano Federico Casagrande – lo ricordiamo, oltre che per i suoi lavori da titolare, anche per le numerose collaborazioni, ad esempio con Francesco Bearzatti ed Enrico Pieranunzi tra gli altri – ed al batterista israeliano Ziv Ravitz, nome poco conosciuto ma che ha all’attivo diverse partecipazioni con gente come Joe Lovano, Lee Konitz, Avishai Cohen. Fisarmonica dunque, insieme a chitarra e batteria. Ma che tipo di jazz si può suonare con una formazione non canonica come questa? In Jokers ci sono molte influenze rock, pop, tradizionali e tre “omaggi” dichiarati a Marilyn Manson (!!), all’autrice britannica Bishop Briggs ed ai Nine Inch Nails. L’impressione è che la conformazione jazz, più che in prima linea, sia rimasta tra le quinte, come un regista teatrale che controlli seminascosto lo svolgimento della sua opera. Anzi, il sospetto che l’improvvisazione sia minoritaria, in questo lavoro, si fa strada proprio perché la struttura musicale sembra molto studiata, più affidata alle partiture che non all’estro estemporaneo dei musicisti. Questo però non toglie nulla al valore complessivo dell’album, eccitante e divertente, per molti versi spiazzante ma che dimostra il volitivo desiderio di Peirani di mantenere ferma la direzione della sua strada, aperta a millanta influenze, senza farsi condizionare da stereotipi o peggio ancora dall’abitudine. Un percorso quasi visionario, comunque assai ricco di spunti fantastici e sottintese simbologie.

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Joel Lyssarides – Stay Now (ACT Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Nonostante gran parte dei pianisti jazz americani ed europei abbiano avuto a che fare, direttamente o indirettamente, con la musica classica, è proprio in Europa e soprattutto al Nord che l’influenza dei grandi maestri dal ’700 al ‘900 ha fatto maggiormente avvertire la propria presenza. Una radice sentimentale che continua ad avvilupparsi attorno alle idee musicali contemporanee non per soffocarle, bensì per far confluire almeno parte di quella voce sublime del passato nell’eccitazione della contemporanea novità. La fusione che ne deriva è manifesta in questo album del trentenne pianista svedese Joel Lyssarides, giunto attualmente al terzo disco da leader ma al primo per l’etichetta tedesca ACT. Stay Now si presenta così, con una scrittura molto ma molto classica, quasi come se il jazz fosse l’ultima appendice di un movimento storico iniziato da Bach e continuatosi dagli anni ’40 del ’900 fino ad oggi. Quello che avviene in questo album non è un semplice “reenactment”, Lyssarides non è un collezionista di oggetti archeologici. Guidato quasi esclusivamente dal sentimento – c’è effettivamente non troppa Ragione nel suo pianismo – l’autore si lascia avvolgere dall’incantesimo di una musica che si fonda sulla melodia, grande protagonista di questa avventura discografica. Una melodia che a tratti prende addirittura il sopravvento fino a sfiorare impercettibilmente l’ingenuità con il suo sviluppo orizzontale che prevale sull’architettura verticale armonica, per quanto possibile sia differenziare i due concetti. Le sue note potrebbero essere per la maggior parte cantate, riprodotte a memoria alla stregua di canzoni e se per alcuni questo può essere un limite ricordo come la tradizione dei lieder, delle romanze, dell’Opera italiana costituiscano una forte ossatura nella storia della Musica, fino al pop dei giorni nostri. Lyssarides, nel suo forte spirito romantico, lavora molto sulla nostra capacità di ricordare “quel tempo della nostra vita mortale”, cioè tende a spingere il pedale sulla riflessiva rimembranza del passato e del resto alcuni titoli dei suoi brani, come Chimera, Echoes, The Last Verse non fanno altro che corroborare quest’idea di meditata analisi del Tempo. Risplende quindi tra le sue note un indefinito senso di luminosa eufonia, un bagliore leggermente sfocato e sospeso in una nuvola di vaga nostalgia. C’è più Ottocento che Novecento nella sua musica, il piano è più vicino a Brahms o a Schumann che non a Ravel o Debussy.

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Emile Parisien – Louise (ACT Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Possiamo veramente affermare che, nel caso del quarantenne sassofonista francese Emile Parisien, un festival jazz come quello di Marciac – su YouTube circolano molti concerti registrati nel corso degli anni in questa località dell’Occitania – sia stato un importante propulsore della sua attività professionale. Proprio in questa manifestazione Parisien ha avuto l’opportunità di testare le proprie capacità strumentali con partner di livello come Wynton Marsalis, Clark Terry, Bobby Hutcherson e altri ancora. Con questo suo nuovo album Louise egli celebra i dieci anni di sodalizio con ACT potendo contare alfine su una dozzina di dischi prodotti finora in carriera, tenendo conto anche di quelli pubblicati con altre etichette. Il sax dentro cui soffia Parisien è il soprano ma in questo caso non vale l’usuale paragone con Coltrane. Niente trascendenze, niente rabbia, Parisien si avvicina alle sonorità pulite di un Sidney Bechet anche se l’essenza musicale è molto diversa. Il nitore sonoro del suo strumento si mantiene costante anche nei momenti più concitati, conservando una particolare nuance luminosa ed una mercurialità personalissima nel passare tra i diversi stati emotivi proposti dalla sua musica. Nel caso di questo suo ultimo lavoro, Parisien ha organizzato una band che in realtà è un vero e proprio ponte culturale tra gli USA e l’Europa, distribuendo ruoli e tendenze tra personalità differenti che trovano in questo frangente l’occasione per creare una propositiva collaborazione. Ci sono quindi tre musicisti americani come lo straordinario batterista Nasheet Waits – un propellente ritmico alla Art Blackey ma calato ovviamente ai giorni nostri – la tromba vellutata di Theo Crocker – nipote del trombettista Doc Cheatham – e il contrabbasso di Joe Martin. I componenti europei, oltre allo stesso Parisien, sono il francese Manu Codjia alla chitarra elettrica e l’italiano – naturalizzato francese – Roberto Negro al pianoforte.

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Adam Bałdych Quintet – Poetry (ACT, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Non so come si debba sentire un giovane musicista che già all’età di 16 anni è stato definito “prodigioso” dalla critica musicale del suo Paese, la Polonia. E che attualmente, compiute trentacinque primavere, venga valutato come uno tra i migliori violinisti al mondo, capace di muoversi tra composizioni jazz e classiche con la medesima elegante sicurezza. Presumo che tutta l’attenzione ad oggi ricevuta in carriera e la ferma determinazione caratteriale abbiano contribuito a condurre Adam Bałdych al suo decimo disco da solista – Poetry – il settimo per la ACT di Siegried Loch. Con un percorso per certi versi analogo a quello di altri musicisti che vengono dal jazz – mi vengono in mente le ultime esperienze discografiche di un pianista come Omar Sosa, ad esempio – il violinista polacco, giunto ad un punto cruciale della sua evoluzione musicale, si è accorto di come la disciplina tecnica, così fondamentale per la sua formazione, gli sia diventata stretta e insufficiente nel raccontare i suoi momenti più intimi, ad esempio l’attuale felicità di giovane padre, avendo appunto dedicato questo suo ultimo album alla moglie Karina e al figlio Teodor. Cercare nuovi spazi di silenzio tra le note, dilatare la sintassi sonora, rallentare l’impeto esecutivo diventano quasi dei dogmi in Poetry, che regala un’impressione di tranquilla, estatica omogeneità d’intenzione. Più che la sensazione di una raccolta di diversi brani abbiamo invece l’impressione di una lunga, suadente suite che si distenda dalla prima nota fin quasi all’ultima sequenza sonora, laddove appaiono invece, come vedremo, alcune imprevedibili e stimolanti differenze. La tensione comunicativa, strutturata con fraseggi relativamente semplici e condotti in piena sobrietà, tende a raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quella dimensione di nicchia elitaria che caratterizza attualmente il jazz europeo.

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Lars Danielsson Liberetto – Cloudland (ACT, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato alla quarta esperienza col suo ensemble Liberetto, il contrabbassista e violoncellista svedese Lars Danielsson fa ruotare alcuni compagni di viaggio attorno al trio stabile costituito, oltre che da lui stesso, dai fedelissimi Magnus Ostrom – chi non si ricorda degli E.S.T.? – e John Parricelli, rispettivamente alla batteria e alle chitarre. In questa occasione troviamo Gregory Privat che sostituisce definitivamente Tigran Hamasyan al piano, Arve Henriksen alla tromba e Kinah Azmeh al clarinetto. Cloudland viene completato dopo un obbligato coitus interruptus dovuto al lockdown, cosicchè questo lavoro iniziato nel 2019 ha potuto essere completato, finalmente, solo quest’anno. L’ascolto dell’album evidenzia una sua propria complessità ritmica che però scompare, come in un abile gioco di prestigio, nel fluire spontaneo della musica. Provate infatti a battere il piedino per seguire il ritmo, se ne siete capaci. Non immaginatevi però percussioni forsennate, ansiogene accoppiate basso-batteria di quelle che non fanno respirare. Questa polimetria di battute si svolge in un clima di serena tranquillità in cui l’aspetto poetico è predominante nonostante vi siano tempi ritmici dispari e sovrapposti. Il ruolo di un sontuoso batterista come Ostrom e la capacità di illuminare i dettagli delle cadenze da parte del contrabbasso di Danielsson non fanno minimamente avvertire il peso della complessità totale della struttura. La “classe”, infatti, è la capacità di rendere il difficile come fosse la cosa più naturale del mondo. Da questo punto di vista la classe di questo gruppo è altissima.

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