R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Nonostante gran parte dei pianisti jazz americani ed europei abbiano avuto a che fare, direttamente o indirettamente, con la musica classica, è proprio in Europa e soprattutto al Nord che l’influenza dei grandi maestri dal ’700 al ‘900 ha fatto maggiormente avvertire la propria presenza. Una radice sentimentale che continua ad avvilupparsi attorno alle idee musicali contemporanee non per soffocarle, bensì per far confluire almeno parte di quella voce sublime del passato nell’eccitazione della contemporanea novità. La fusione che ne deriva è manifesta in questo album del trentenne pianista svedese Joel Lyssarides, giunto attualmente al terzo disco da leader ma al primo per l’etichetta tedesca ACT. Stay Now si presenta così, con una scrittura molto ma molto classica, quasi come se il jazz fosse l’ultima appendice di un movimento storico iniziato da Bach e continuatosi dagli anni ’40 del ’900 fino ad oggi. Quello che avviene in questo album non è un semplice “reenactment”, Lyssarides non è un collezionista di oggetti archeologici. Guidato quasi esclusivamente dal sentimento – c’è effettivamente non troppa Ragione nel suo pianismo – l’autore si lascia avvolgere dall’incantesimo di una musica che si fonda sulla melodia, grande protagonista di questa avventura discografica. Una melodia che a tratti prende addirittura il sopravvento fino a sfiorare impercettibilmente l’ingenuità con il suo sviluppo orizzontale che prevale sull’architettura verticale armonica, per quanto possibile sia differenziare i due concetti. Le sue note potrebbero essere per la maggior parte cantate, riprodotte a memoria alla stregua di canzoni e se per alcuni questo può essere un limite ricordo come la tradizione dei lieder, delle romanze, dell’Opera italiana costituiscano una forte ossatura nella storia della Musica, fino al pop dei giorni nostri. Lyssarides, nel suo forte spirito romantico, lavora molto sulla nostra capacità di ricordare “quel tempo della nostra vita mortale”, cioè tende a spingere il pedale sulla riflessiva rimembranza del passato e del resto alcuni titoli dei suoi brani, come Chimera, Echoes, The Last Verse non fanno altro che corroborare quest’idea di meditata analisi del Tempo. Risplende quindi tra le sue note un indefinito senso di luminosa eufonia, un bagliore leggermente sfocato e sospeso in una nuvola di vaga nostalgia. C’è più Ottocento che Novecento nella sua musica, il piano è più vicino a Brahms o a Schumann che non a Ravel o Debussy.

Il training esperienziale di Lyssarides parte, infatti, dagli studi classici compiuti a Stoccolma e dall’interesse crescente per il jazz che lo cattura strada facendo, fino ai perfezionamenti nell’arte dell’orchestrazione compiuti in Italia al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. In questo disco oltre a Lyssarides troviamo il contrabbassista Niklas Fernqvist e il batterista Rasmus Blixt. Un trio in cui la parte del leone la fa il piano ma che ha nei due componenti della ritmica un valido supporto espressivo che si mantiene comunque entro limiti ben delineati, attenti a non travalicare i propri confini.
Sono sufficienti poche note del brano iniziale dell’album As Night Let Down Its Curtain per avvalorare ciò che abbiamo accennato poco sopra. Si ascolta, infatti, un tema dall’andamento Rachmaninoviano, molto “sinfonico”, ben scandito dalle note del piano che lo rendono cantabile. Fruscio di piatti e pochi cenni di contrabbasso bastano per delineare la struttura di questo breve preludio. Sommarsno si popola di voci remote, di ricordi come fossero rintocchi di campane lontane. Il tema inizia appoggiandosi su un bordone in Fa diesis e sembra una cantilena infantile colma di dolcezza e malinconico rimpianto, stemperato però dalla tonalità d’impianto inizialmente in maggiore. Quando però lo stesso tema passa in modo minore la melodia acquisisce una punta di dolorosa tristezza. II finale recupera l’intenzione iniziale, diluendo il peso del ricordo. C’è una certa somiglianza, in un brano come questo, con alcune Kinderszenen di Robert Schumann. Un po’ più di jazz nell’approccio ritmico in Cloudberry Hill ma la struttura melodico armonica è ancora molto classica e si lascia un po’ più andare solo verso metà brano, complice un’impennata di contrabbasso che offre l’abbrivio per un assolo di piano molto curato ed elegante. Il tema principale è incalzante, quasi evocativo di una corsa. Molte immagini affiorano alla mente, a tratti si ha l’impressione che una musica di questo tipo si adatterebbe molto bene a far da colonna sonora di un progetto cinematografico. Is There a Way è un pezzo lento e struggente, trattato come una jazz ballad. Ma pur cambiandogli l’abito l’impronta classica resta preponderante, con questi temi così limpidamente melodici, carichi di irrisolte malinconie. Gowns of Dark sembra riprendere l’idea di Cloudberry, affidando alla mano sinistra del pianista un lavoro strutturale pressante, quasi incombente. Sale la febbre, batteria e contrabbasso nelle sue note più alte incalzano il piano che imposta rapidi e circolari movimenti melodici. Procession è ricca di cadenze, almeno all’inizio, che più Brahmsiane non si potevano. Però poi emerge un raccolto, intimissimo assolo di piano, sorretto dal lavoro discreto della ritmica. A Lyssarides non piace esagerare, né calcare la mano. La sua perizia tecnica ce la mostra in piccoli frammenti di scale e nel tocco molto calibrato sui singoli tasti. Anche in questo frangente il mood è sempre quello pensoso, assorto in questa autopsia del ricordo, alla ricerca di volti, di sentimenti, di quelle comparse fuggevoli che spesso passano attraverso le nostre vite lasciando poche tracce nella memoria.

Chimera non credo si riferisca tanto all’ibrido mostro mitologico, quanto al suo significato n allegorico, nel senso di un sogno fatuo, inintelligibile, del tipo che tutti abbiamo avuto nella nostra vita. In effetti le prime note sono evanescenti come il vapore, con i piatti della batteria che offrono ancor più leggerezza. L’esposizione iniziale vira verso qualche sfumatura new age che mi ha ricordato il naturalismo di George Winston. Dopo un minuto e trenta arriva l’inganno. Quello che sembra un’accelerazione in realtà viene risucchiata da una serie di note ribattute di piano che prelude alla ripetizione del tema, con un arpeggio della mano sinistra che solo oltre la metà del brano diventa più incisivo. L’utilizzo di una nota bordone si ripete qui come era già avvenuto in Sommarsno, l’atmosfera si fa sognante e verso la fine si rarefa ulteriormente, coadiuvata dalla nota tonica ribattuta dal contrabbasso, quasi a significare il ritorno del Tempo a spazzar via la dimensione del ricordo. Stay Now è caratterizzato da una progressione discendente di accordi pianistici che passano rapidamente e in modo alternato dalla tonalità maggiore a quella minore suggerendo uno slittamento continuo da uno stato emotivo all’altro. Un rapido passeggiare di spazzole sul rullante accentua questa dimensione mutevole, instabile. Bach e Romanticismo si fondono in unico insieme e sembra veramente di avere a che fare con un brano estrapolato dalla musica classica a cui venga aggiunta una parte ritmica, ottenendo un ibrido insolitamente attraente. Echoes, ovvero riflessi di luce sulla superficie dell’acqua. È un brano, questo, di grande bellezza e suggestione, che rimanda al novecento francese, quasi un esercizio di piano solo con uno splendido incrocio armonico tra l’accompagnamento e la parte melodica, con lo scambio di ruoli tra le due mani, la destra che accompagna per gran parte dello sviluppo e la sinistra che traccia la melodia. Down and Out mi suggerisce il suono del compatriota svedese Martin Tingvall, con cui noto, e non solo in questo brano, parecchie consonanze emotive e musicali. Il pezzo subisce lo stesso trattamento di Is There a Way, cioè si tratta di rendere come jazz ballad una composizione che comunque non sfigurerebbe senza accompagnamento alcuno. La melodia diventa molto cantabile, nonostante una corona di note improvvisate – ma poche – che nella metà della traccia cerca di prendere maggior distanza dal contesto. St. Joseph sembra mutare l’atteggiamento complessivo fin qui dimostrato con un melodismo più moderno, quasi pop, e un accompagnamento molto regolare di batteria, nonostante gli stacchi avvertibili all’inizio. Possiamo ascoltare un assolo di contrabbasso che sembra quasi un’imitazione di un cantato. Lyssarides ama ovviamente gli ostinati sotto forma di nota-bordone ribattuta, anche qui abbondantemente utilizzata. The Last Verse è un valzer che assembla in modo un po’ stravagante elementi morriconiani e pop music – si avvertono cadenze somiglianti alla Mona Lisa di Nat King Cole. Nonostante l’indubbia gradevolezza permane una sensazione di deja ecoutè.
Lyssarides ci racconta quindi una suggestiva ipotesi matrimoniale tra una coppia un po’ squilibrata di fattori, quello classico, decisamente preponderante e quello jazz più in sottofondo. Il risultato è speciale, molto piacevole e carezzevole all’orecchio. Resta da vedere se un matrimonio di questo tipo, con un aspetto evidentemente dominante verso l’altro, abbia possibilità di essere replicato, magari in un prossimo lavoro del pianista svedese o per mezzo di altri “sperimentatori” volenterosi.
Tracklist:
01. As Night Let Down Its Curtain
02. Sommarsnö
03. Cloudberry Hill
04. Is There a Way
05. Gowns of Dark
06. Procession
07. Chimera
08. Stay Now
09. Echoes
10. Down and Out
11. St. Joseph
12. The Last Verse
Photo © Nikola Stankovic
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