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Ropeadope Records

Karl-Martin Almqvist Ababhemu Quartet – The Travelers (Ropeadope Records, 2024)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Bisognerebbe valutare attentamente i musicisti che troviamo in questa formazione euro-africana dal chilometrico nome di Karl-Martin Almqvist Ababhemu Quartet, perché la presenza del pianista Nduduzo Makhathini – leggi qui – e quello del batterista Ayanda Sikade – vedi qui – evocano giustamente due album suggestivi come In the Spirit of Ntu (2022) e Umakhulu (2021). Questi lavori di fatto dimostravano che il jazz poteva modificarsi se attratto fortemente dal campo gravitazionale della tradizione magico-rituale africana. La memoria di queste due pubblicazioni rischia però ora di oscurare parzialmente la consapevolezza che in questa circostanza ci si trovi di fronte ad una prova un po’ diversa come The Travellers, accreditata a Karl-Martin Almqvist – sassofonista svedese molto considerato in patria ma poco conosciuto da noi – e al suo quartetto Ababhemu. Il gruppo così composto registra la presenza, oltre alla coppia degli artisti sud-africani sopra citati e in aggiunta al leader Almqvist, di un altro musicista europeo, il norvegese Magne Thormodsaeter al contrabbasso. Si è venuta cosi a ri-creare – e tra poco vedremo il perché – questa formazione mista maggiormente orientata ad un jazz d’impronta più classica, rispetto a quanto Makhathini e Sikade ci avevano segnalato con i loro due lavori succitati.

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Mthunzi Mvubu – The 1st Gospel (Ropeadope Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Attualmente il jazz proveniente dal SudAfrica è in grado di creare attorno a sé un potente campo magnetico riuscendo ad ottenere, attraverso un lessico piuttosto elaborato ed una fertile espressività, un distillato sonoro di grande fantasia e di alto valore energetico. Quello che colpisce, al di là delle effettive capacità dei singoli e del conseguente risultato d’insieme, è la freschezza con cui il messaggio musicale viene fatto pervenire. Nell’ottica del jazz contemporaneo, senza ricorrere necessariamente ad estremistiche dissonanze, questa musica sembra aver completato un lungo peregrinare attraverso i continenti per ritornare infine in terra d’Africa, laddove tutto era iniziato. Talora riempiendosi di fragranze etniche e altre volte riproponendosi come una variante della stessa musica lievitata negli Stati Uniti e in Europa, il jazz sudafricano sta giocando bene le sue carte e partecipa alla perpetuazione del genere, senza pericolo di fossilizzarsi in collaudati stereotipi. Prendiamo ad esempio questo The 1st Gospel che vede il saxofonista contralto e flautista Mthunzi Mvubu – purtroppo i nomi degli artisti sudafricani sono difficili da pronunciare e memorizzare, almeno per noi italiani – debuttare con la sua prima uscita discografica da titolare. Non si pensi a Mvubu come un esordiente, però. Infatti egli ha partecipato come collaboratore a circa una ventina d’incisioni, tra le quali ricordiamo due con Shabaka and the Ancestors – quella di We are Sent Here by History la trovate recensita quie altre due con Nduduzo Makhathini, del cui profilo artistico potrete avere notizie sia qui che qui. Inoltre fanno testo anche i numerosi concerti a cui Mvubu ha partecipato, non solo con i due artisti sopra menzionati ma anche con un monumentale musicista sudafricano come Abdullah Ibrahim, con Omar Sosa, Victor Ntoni e diversi altri. Dicevamo della fresca immediatezza della musica sudafricana e nel caso di Mvubu questa caratteristica viene accentuata dal melodismo e in parte dalla cantabilità del suo sax e del flauto ma anche dall’intreccio vincente con il pianoforte di Afrika Mkhize, a mio parere un’autentica rivelazione per come sostiene l’intero asse armonico e ritmico.

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The Headhunters – Speakers In The House (Ropeadope Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è un piccolo mistero all’origine di questo nuovo disco degli Headhunters. Effettivamente si tratta della uscita più recente dopo Platinum del 2011 ma diverse fonti rispetto alle note stampa allegate a questo Speakers in the House, rivelano che in realtà le tracce componenti l’album furono già autoprodotte nel 2018-19. Comunque sia si tratta di una questione trascurabile, visto che l’anno prossimo ricorrerà il cinquantesimo anniversario del battesimo discografico di questa band, avvenuto nel 1973 a fianco di Herbie Hancock. Gli Headhunters non hanno una grande discografia alle spalle, tenendo conto che quest’ultimo album è l’ottavo della loro carriera e i primi due dischi uscirono appunto a nome del grande pianista di Chicago. Ma col nuovo decennio degli ’80 il gruppo non esisteva già più, restando orfano di Hancock che aveva intrapreso altre strade. Dopo una fugace reunion con il loro mentore verso la fine dei ’90, gli Headhunters hanno ripreso una certa attività discografica e concertistica fino ad arrivare ai giorni nostri. Paladini del jazz-funk nel quale il gruppo ha inoculato dosi robuste di influenze afro-caraibiche condite con effetti elettronici, la band ha attraversato tutti questi anni come un’astronave che abbia sfidato la barriera spazio-temporale, riproponendo uno stile musicale in fondo rimasto fondamentalmente uguale. Fonte ispirativa per il nu-jazz degli anni ’90, scopiazzata, campionata, da tutti quei sampleristi che invece di sporcarsi le mani preferivano tagliuzzare e ricomporre opere altrui alle quali aggiungere percussioni elettroniche qua e là, questa band riconosce attualmente i suoi due leader, cioè il percussionista Bill Summers – presente nel gruppo fin dagli esordi – e il batterista Mike Clark, esperto di controtempi che si aggiunse nel ’74 con l’uscita di Thrust. L’importanza di due musicisti legati entrambi all’aspetto rimico come appunto Summers e Clark la dice lunga sulle finalità di un ensemble come questo, lontano anni luce dall’intendere la musica come esercizio intellettuale o eccessivamente sentimentale, puntando sul groove, sul backbeat di Clark e su atmosfere rilassate, luminosamente euforiche, in poche parole decisamente piacevoli. Senza dimenticare però il jazz, che pure alle volte velatamente mascherato e sospeso, non si limita a stare sull’uscio e irrompe col suo carattere deciso in più di un’occasione, come vedremo dall’analisi dei brani che seguiranno. La formazione di questo album, oltre ai citati Summers & Clark, include il bassista elettrico Reggie Washington, il sassofonista contralto Donald Harrison e il pianista-tastierista Stephen Gordon. Si aggiungono gli interventi di Fode Sissoko alla voce ed alla Kora, Jerry Z. all’organo, Ashlin Parker alla tromba e infine Scott Roberts alla programmazione di percussioni elettroniche.

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Linda Sikhakhane – Isambulo (Ropeadope Records, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono pronto a sottoscrivere che le novità migliori, per quel che riguarda il jazz extraeuropeo, provengono attualmente da Chicago e dal Sud Africa. Non ne conosco le motivazioni intrinseche, ma se si vuole ascoltare del buon jazz contemporaneo, senza cadere nei gorghi cacofonici dello sperimentalismo estremo, ci si deve rivolgere attualmente alla Windy City dell’Illinois oppure all’estremo sud dell’Africa. Prendiamo per esempio questo sassofonista tenore, Linda Sikhakhane – il nome gentile non tragga in inganno, non si tratta di un’eterea fanciulla ma di un robusto ragazzone con tanto di pizzetto alla Gillespie – che avevamo notato nel bel disco di Nduduzo Makhathini, la cui recensione, se non la ricordate, la troverete qui su Off Topic. Cos’ha Sikhakhane tanto da meritare la nostra attenzione? Innanzitutto non si tratta di un esordio, perché il nostro musicista è al suo terzo disco. Ma questo ultimo, Isambulo, che nella lingua madre IsiZulu di Sikhakhane significa “Rivelazione” è stato inciso in Europa, per la precisione a Basilea, con una partecipazione importante di musicisti svizzeri. La costante che accomuna quasi tutti i jazzisti sudafricani è la loro attenzione verso la dimensione spirituale, rafforzata da componenti di natura filosofica-religiosa. In un’intervista a 702 Primedia Broadcasting, una nota stazione radio africana il cui Podcast è facilmente raggiungibile in Rete, Sikhakhane cerca di spiegare alla conduttrice che la Rivelazione, cioè la consapevolezza della propria natura umana, può passare attraverso la musica e che i suoni servono appunto ad aiutare a raggiungere questo obiettivo. Quello che in altri termini, cioè, secondo il pensiero occidentale di C.G. Jung, viene definito come ricerca del Principio d’Individuazione del proprio sé. Che tutto ciò sia realmente fattibile o che rimanga a livello di ipotetica speranza, resta comunque un dato obiettivo ed incontrovertibile. La Musica di Sikhakhane è qui per essere ascoltata, in quel pastoso miscuglio tra matericità sonora e risonanze dell’anima che sono il frutto di una ricerca, armonica e quindi spirituale, operata dall’Autore e da tutti i musicisti che collaborano con lui. Si ascolta molto Coltrane, tra le righe espressive di Sikhakhane, e questa influenza è talora palese, come accade nel brano di apertura di Isambulo, mentre altre volte emerge maggiormente un’autonoma personalità artistica. Questa si è costituita inizialmente in Sud Africa ma si è venuta poi a perfezionare a New York con maestri del calibro del trombettista Charles Tolliver – toglietevi la soddisfazione di ascoltarlo nel suo Connect del 2020 – e del sassofonista Billy Harper, uno tra i maggiori “corresponsabili” dell’influenza coltraniana di Sikhakhane.  

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Ariel Bart – In Between (Ropeadope Records, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Nella “Tempesta” di Shakespeare Ariel è il nome di uno spirito dell’aria. Nella religione ebraica Ariel è invece un angelo. Comunque sia l’aria pare essere l’elemento portante di questa entità, sotto tutte le possibili forme in cui si trovi. Per suonare l’armonica a bocca di aria ne occorre tanta, come per qualsiasi strumento a fiato. Il respiro, ciò che ci mantiene in vita, scorre nello strumento animandolo, insufflando parte di quella vitalità che possediamo, dandoci forse qualcosa di più che un’illusione demiurgica. Cioè la consapevolezza di poter essere creatori, a nostra volta, di un’arte come la musica. Ariel Bart è una giovane armonicista israeliana appena ventitreenne che ha concluso però la sua formazione professionale a New York, a tu per tu con jazzisti importanti tra cui alcuni suoi maestri come Aaron Parks e Anat Cohen, per esempio, o partecipando all’incisione di un album del contrabbassista William Parker e di un altro del batterista Andrew Cyrille. Ariel Bart è poco più che uno spiritello gentile, quindi, ma che conosce i segreti dell’armonica cromatica quasi come fosse una navigata artista certamente più matura degli anni che dimostra di avere. A dir la verità conosco pochissime donne che suonino l’armonica, diatonica o cromatica che sia. Mi vengono in mente solo due nomi. Il primo si riferisce ad una figlia d’arte come Karen Mantler – sua madre è Carla Bley con la quale condivide, oltre il dna musicale, una evidente somiglianza fisica – e il secondo nome riguarda Annie Raines, però maggiormente orientata verso il blues.

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