R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Fa quasi tenerezza il racconto di Ayanda Sikade riguardo la storia del suo approccio alla musica. Questo quarantunenne batterista sudafricano di Mdantsane, cittadina dal nome impronunciabile situata nell’Eastern Cape, ricorda che all’età di dieci anni era solito curiosare nei locali vicino casa dove provavano molti musicisti jazz. Il suo interesse si orientò giocoforza alla batteria perché era l’unico strumento che gli era permesso manipolare e proprio da questa scelta “obbligata” il destino di Sikade cominciò a delineare il suo percorso. Da quei primi approcci con le pelli dei tamburi, fino all’esperienza musicale universitaria sulle percussioni, il passo è stato breve e naturale. Nel corso dei suoi studi Sikade conosce il pianista Nduduzo Makhathini con cui inizierà un lungo sodalizio professionale che si realizzerà sia nelle produzioni dello stesso Makhathini che nei lavori del batterista, compreso questo Umakhulu, seconda uscita da titolare per Sikade. Il precedente album del 2018, l’ottimo Movements, pur mantenendo come Umakhulu qualche aspetto d’avanguardia, era un lavoro più urbano e possedeva forse meno spontaneità e immediatezza. In effetti quest’ultimo disco, dedicato alla nonna dello stesso Sikade, è un abile gioco di montaggio tra suggestioni diverse, ripescaggi blues, melodie tradizionali, frammenti bebop e ballate suadenti. Con un preciso senso “storico” del territorio, animato quasi da una voracità fanciullesca, Sikade s’appropria di tutto ciò che ha potuto ascoltare nella sua vita, dai canti e balli popolari accompagnati dal battito delle mani al jazz più mainstream fino alle escursioni free, affidate soprattutto al giovane sassofonista contralto Simon Manana. Sikade non è certo un batterista esibizionista, anzi, potremmo definirlo “un batterista silenzioso” se ciò non apparisse quasi un controsenso. La sua concezione del tempo rivendica una certa elasticità rispetto a quella statunitense ed europea, escludendo ogni ansia eccessiva, ogni tensione verso una puntualità ritmica rigorosa, cercando una poliritmia rasserenante e non compulsiva. Un percussionista, insomma, che non ama mettersi troppo in mostra, dal tocco leggero e dalla punteggiatura sensata. I suoi brani si propongono come composizioni spesso dotate di un senso melodico accattivante, scritte con tale garbo e classe da ricordare, soprattutto nell’ultimo brano Gaba, il tono confidenziale ed elegante di uno Strayhorn.

Accanto alla batteria di Sikade troviamo quindi il piano di Makhathini, il sax del ventiduenne Simon Manana e il contrabbasso di Nhlanhla Radebe. La registrazione delle tracce in Umakhulu è avvenuta al Sumo Sound di Johannesburg praticamente in presa diretta e riguardo a questa modalità Sikade è piuttosto categorico nell’affermare che una vera registrazione jazz dev’esser catturata così come viene, includendone anche gli eventuali errori – che peraltro non sono riuscito a cogliere – per rendere il risultato più verace. A proposito poi del contralto di Manana c’è da notare come il vero centro di questo lavoro sia proprio il soffio del giovane musicista che caratterizza con il suo timbro caldo lo spirito del progetto di Sikade, a metà tra Johnny Hodges e l’Archie Shepp del recente Let my people go – trovate la recensione di questa prova di Shepp qui su Off Topic.
Si apre l’album sulle note blu di Mdantsane, ovviamente dedicato alla cittadina in cui è iniziata la folgorazione musicale di Sikade. Il tema è molto cantabile e memorizzabile, suonato in punta di dita da tutti i quattro musicisti, con gli interventi convincenti del piano e con un suo bell’assolo nella parte centrale. Il clima è quello intimo di un quartetto blues, reso ben avvertibile dal timbro rotondo e materico del sax. Izzah è il brano più lungo del disco, oltre dieci minuti di una dilatata, sofferta ed affettuosa elegia che innesca una musica piena di ricordi in cui ascoltiamo i movimenti nervosi del piano sia ad intercalarsi tra gli spunti melodici del sax sia a procedere in assolo. Ma è soprattutto il contralto di Manana ad affascinare, con i suoi interventi in equilibrio tra il tenero sussurrare e il lancinante lamento. Un’evocazione di spettri nella quale la trama di sostegno di Sikade è il collante fondamentale. La bravura del batterista la si legga qui, nel suo intercedere tra gli strumenti con voce duttile ed aerea, un continuo drone di sostegno poliritmico in cui si apprezzano delicati ma continui cambiamenti di fase. Space Ship è un ricordo dei viaggi in treno che Sikade ha compiuto attraverso l’Europa. In effetti l’accompagnamento incalzante nella sua regolarità percussiva ottenuta dalla batteria simula in qualche maniera il movimento regolare e ripetitivo dei viaggi ferroviari. Qui, più che l’andamento circolare e modale del sax peraltro ben condotto, si resta colpiti dagli accordi di piano che sono la vera struttura di riferimento, assieme alla batteria, per lo sviluppo di questo brano. C’è anche spazio e tempo per il pianoforte per lanciarsi in un assolo all’inizio molto melodico ma che poi sfugge alle maglie strette di una regolarità narrativa per liberarsi in parentesi più free. Amawethu (fratelli)ricorre alla pulsazione del contrabbasso per introdurre un accenno melodico che ricorda molto uno standard come It’s only a Paper Moon ma che poi deraglia verso un’improvvisazione che pare essere l’ideale continuità del precedente Space Ship. Imithandazo Yeengelosi, in lingua Xhosa – la lingua madre dell’Eastern Cape – significa “preghiera degli angeli”. Inizio lentissimo a passi timpanici e di contrabbasso, quasi una intima riflessione o l’evocazione di una silenziosa processione religiosa, una partecipation mistique in cui i musicisti si trovano a raccogliersi attorno al tema sottovoce di Manana. È ancora il pianoforte di Makhathini a creare interessanti sfumature armoniche senza le quali forse il brano risulterebbe un po’ troppo appiattito su sé stesso.

Nxarhuni River è invece una scossa ritmica e bebop dal piglio più urbano ma che racconta, di per sé, il percorso del fiume omonimo nell’Eastern Cape e le sue piene stagionali. Il senso di eccitazione del movimento acqueo del Nxarthuni è lo stesso – come racconta Sikade – di quello che stimola la dinamica di un viaggio, accomunando così il ricordo del fluire del fiume con lo Space Ship e il suo correre attraverso l’Europa. Il brano inizia con un colpo di rullante che accende il piano, questa volta non perfettamente pulito, nella sua corsa attraverso la tastiera. È poi il sax a lanciarsi in un bell’assolo, tecnicamente serrato e spigoloso, che accende un momento “pianoless” in cui si ascolta solo il trio sax-basso-batteria in un frangente che ricorda certe cose di James Brandon Lewis. Su ciò che riguarda il brano che dà il titolo all’album non ci si può sbagliare, infatti Umakhulu significa ”nonna” e pare quindi direttamente dedicato a questo importante affetto familiare sebbene Sikade preferisca sottolineare, in questo contesto, non tanto l’aspetto nostalgico del ricordo, quanto l’energia di questa vicinanza e il sostegno affettivo e psicologico che il batterista ne ha ottenuto. Il sax esordisce con un riff quasi rock’n’roll addolcito dalle scale discendenti del piano che simula, dal punto di vista sonoro, la suggestione strumentale di una kora. Ancora un lungo momento in trio dove, a pianoforte escluso, si ha l’opportunità da un lato di cogliere pienamente il carattere del sassofonista e dall’altro l’efficacia, nella sua apparente semplicità, dell’accompagnamento ritmico di contrabbasso e batteria. L’assolo di piano che interviene secondariamente è molto più ponderato e lontano dalla frenesia un po’ disordinata di Nxarthuni River. Il coro finale con tanto di battito di mani a sottolinearne il tempo, riprende la tradizione popolare ed è un momento di assoluta freschezza che ci ricorda, in maniera incontrovertibile, la provenienza africana del jazz. Però in questo contesto non si tratta più di un ritorno alle radici, come potrebbe accadere in USA ma un essere all’interno “qui ed ora” nell’origine delle sorgenti storiche della musica nera. Enkumbeni è forse il momento in cui quest’album diventa confondibile con la musica del jazz contemporaneo statunitense. Sicuramente un brano splendidamente suonato ma che tradisce un poco lo schema impostato fin qui da Sikade, soprattutto col sax che va a parare più dalle parti di un neo-coltranesimo rispetto alla tradizione sudafricana respirata fino ad ora. Perfino Makhathini, per restare in tema, assomiglia qui più a McCoy Tyner che a sé stesso. Chiusura all’insegna del blues, così come si era iniziato, dove Manana, come già rilevato, prende le sembianze di un novello Johnny Hodges o di un Ben Webster, andando a costruire una ballata in cui il piano interviene con un assolo tutto da ascoltare per il suo modo personale di affrontare il blues.
Dopo la recente recensione dell’ultimo disco di un colosso della musica sudafricana come Abdullah Ibrahim – la trovate qui su Off Topic – e l’esordio del sorprendente Malcom Jiyane – anch’egli rintracciabile qui – prendiamo atto di come il Sudafrica sia attualmente una forza prorompente di novità mescolata alla tradizione, un nuovo “axis mundi” attorno al quale forse potrebbe ruotare, un giorno, il futuro del jazz.
Tracklist:
01. Mdantsane
02. Izzah
03. Space Ship
04. Amawethu
05. Imithandazo Yeengelosi
06. Nxarhuni River
07. Umakhulu
08. Enkumbeni
09. Gaba
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