R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

L’ultimo lavoro di Abdullah Ibrahim, il chiaroscurale, anziano pianista ribattezzato nientemeno che il “Mozart Sudafricano” da Nelson Mandela, si presenta con un titolo che è già programmatico, sia dal punto di vista formale che contenutistico, cioè Solotude. Giocando sulla deformazione grammaticale del termine “solitude”, Ibrahim intende riferirsi non solo all’esperienza di un teatro svuotato dalla pandemia – dove è stato registrato l’album – ma anche alla sua performance condotta e registrata da solo con il proprio pianoforte. Interessante, però, è anche il sottotitolo dell’album, My Journey, My Vision, che sembra raccontare non solo una condizione esistenziale ma rappresentare anche il sunto di un lungo viaggio attraverso ottantasei anni di musica, partendo dal gospel e dalla tradizione nera fino ad arrivare al jazz. Questa ultima incisione, realizzata dal vivo in un teatro tedesco – la Hirzinger Hall – senza pubblico, ha permesso giocoforza a Ibrahim di collocarsi all’interno di una dorata solitudine, con un raccoglimento e una concentrazione tali da potersi reinventare molte sue precedenti composizioni e riproporle nell’essenzialità sonora del piano-solo. Musica dello Spirito, sia ben chiaro. Nessun demone, nessuna carnalità, niente ego. Rabbia e rivendicazioni se mai ci siano mai state in lui, in questa occasione non trovano posto, lasciando invece che una luce crepuscolare avvolga i suoi suoni velandoli di malinconia e di ricordi. In poco meno di 45 minuti di esecuzione scorrono venti brani – tra i quali solo due nuovi –  spesso quasi cuciti insieme come un unico racconto, un canto omerico in cui le immagini del Mito sono quelle di una terra d’origine martoriata per tanti anni dalla segregazione razziale e dall’isolamento culturale. Tra le dita di Ibrahim scorrono le suggestioni di Duke Ellington, con cui collaborò negli Stati Uniti, mentre scompaiono in questo frangente live le dissonanze di Monk, altro musicista che a dire dello stesso Ibrahim fu una delle sue maggiori influenze. Solotude vibra sulle note di una quieta memoria, di un abbandonarsi al sentimento in una lunga meditazione sul mal di vivere ma anche, all’opposto, sulla gioia dell’amore e della vita, anche quando questa mostri le sue pieghe più amare.

Il silenzio è forse il protagonista misconosciuto di questo lavoro, è lo spazio in cui si avvertono talora i sospiri del pianista e i suoi borbottii, unico commento percepibile nel teatro vuoto, oltre alla musica. Proprio il silenzio ambientale sottolinea il candore, la purezza di queste armonie così facilmente assimilabili eppure tutt’altro che banali, frutto di un’esperienza lunghissima e di una conoscenza impeccabile delle leggi armoniche che governano il jazz e non solo. S’intrecciano e si sovrappongono frammenti di lontane monodie, quasi degli atavici richiami che vengono dalla tradizione sudafricana e dai canti religiosi. Tutto questo s’intercala a canoniche risoluzioni jazzistiche, a cadenze assimilate da anni di esperienze in compagnia non solo di Ellington ma anche di altri musicisti di vaglia come Ornette Coleman, Archie Shepp, Max Roach, John Coltrane ecc… Certamente ancora forte è l’impressione di un altro disco solo, inciso nel 2019, quel Dream Time che sembra essere il riferimento più prossimo a questo Solotude con cui condivide la rarefazione sonora propria di un piano suonato senza tecnicismi, del resto ormai inutili nel cospicuo bagaglio esperienziale di Ibrahim. Nell’analizzare i singoli brani si corre il rischio di ripetersi perché a volte sembrerà di ascoltare un discorso unitario, in cui le frammentazioni delle tracce possano apparire più artificiose che reali. Tuttavia i momenti di questo disco sono così belli e toccanti che sarebbe un peccato non prestar loro la dovuta attenzione.

L’esordio dell’album avviene con Mindiff, brano che appartiene all’omonimo album uscito nell’’88 e facente parte della colonna sonora del film Chocolat. Dimentichiamoci la base ritmica quasi jungle del brano originale, qui ne viene estratta solo l’anima. L’incedere è lento, malinconico, quasi grave e possiede una propria religiosità attenta alle singole, calibrate note come fossero parole estrapolate da una preghiera. Trieste my love era il brano di apertura di Dream Time del 2019 ed è proprio questo album che si apre in solo con l’omonimo pezzo. Meno chiusa rispetto alla traccia precedente, la musica mostra una componente affettiva più marcata, quasi cantabile. Ci sono somiglianze con certi momenti più intimi alla Jarrett e un indirizzo decisamente jazzy ma non si fa in tempo a focalizzarne l’attenzione che subito si passa alla composizion successiva. Nisa è tratto dallo stesso Dream Time ma appare meno scuro rispetto all’album del 2019, più incline all’improvvisazione, scandita dai commenti sottovoce del pianista. Anche Blue Bolero viene sempre da Dream Time ma in quest’ultima circostanza era suddiviso in due parti, I e II. In Solotude Ibrahim ne fa una sintesi, iniziando dalla seconda parte e mescolandola poi con la prima. L’andamento è molto classico-europeo, quasi chopeniano, passando da una tonalità minore ad una maggiore centrale e rientrando poi nella minore durante il finale con una chiosa velata da una certa tristezza. Anche in questo caso il brano trascolora nel successivo In-Tempo, il primo tra gli inediti di Solotude. Con i suoi cinque minuti circa di durata è uno tra i pezzi più lunghi e più complessi all’ascolto, in cui diverse linee melodiche formano un reticolo di sovrapposizioni che entrano ed escono dalle geometrie della composizione con numerosi cambi di tonalità che mantengono comunque un’impronta dichiaratamente jazz. Siamo sempre all’interno di un profilo intimo, votato ad inabissarsi nell’emotività dell’autore che sembra a volte sul punto di perdere il filo per poi ritrovarsi nelle note iniziali addirittura di Blue Bolero, traslando quindi da un brano all’altro – e questo era il rischio di cui si era parlato, introducendo la presentazione dei singoli pezzi. Segue proprio Dream Time dall’omonimo album che come si è visto ha fornito molto materiale a Solotude. Rarefazione importante dei suoni,opportunamente soppesati, prima di riconfluire nel tema melodico di Blue Bolero (First Reprise) – tema che deve aver stregato lo stesso Ibrahim, oltre che noi. Ma questa “ripresa” s’immette a sua volta nel seguente Peace, una sequenza di accordi senza note dissonanti in un brano dalla forte matrice classicheggiante e che proviene dall’album Muhashi del 2013.

Blues from a hip king è estrapolata dall’omonimo album pubblicato nel 1989, a sua volta pensato come un assemblaggio di tracce diverse composte negli anni ’70, molto simile come struttura a Peace. Un pezzo pacato, tranquillo, come del resto si presenta tutto l’album e che pare il preludio a District 6 dove invece affiora un po’ più di verve, un’aria più leggera a ricordo di un quartiere multirazziale di Cape Town vivace di diversità e purtroppo strategicamente eliminato dai piani regolatori della città. L’album da cui questo brano è stato estratto è African Magic del 2002. Tokai – niente da spartire col vino ungherese – è il nome d’una foresta sudafricana ed è anche una traccia derivata da un album del ’69, African Sketchbook. Quasi un inno, un canto corale religioso, che nella sua brevità confluisce prima in District 6 (Reprise) e poi in un altro frammento flash come Pula, ancora estratto da Mindif. Quando è la volta di Sotho Blue, tratto dall’omonimo album del 2010, ascoltiamo un intro quasi sovrapponibile all’inizio di Mindiff ma questa traccia è più elaborata armonicamente con diversi salti tonali e qualche momento dissonante che dona a Sotho Blue un vago profilo più spettrale. Subito dopo un’altra brevissima ripresa di Blue Bolero (Second Reprise) per arrivare a Did your hear that sound?, traccia ricavata da un album di artisti vari che uscì nel 2002, Amandla, colonna sonora di un film omonimo. Si tratta di un appunto sonoro molto rilassato e meditativo. Poche battute e si arriva a In the evening da Senzo (2008). In pezzi come questo ho quasi l’impressione di ascoltare una sorta di ibrido – se mai fosse esistito – tra Paul Bley e Bill Evans. Avvicinandoci al termine del disco incontriamo Once upon a Midnight. Strutturato in modo analogo ai brani precedenti – tutto l’album risente di questa omogeneità di intenzione compositiva – nonostante l’incedere placido, s’arricchisce di momenti sospesi e di qualche sporadica dissonanza. Si aprono spazi insoliti in cui le strade melodiche s’assestano tra accordi tensivi ed altri risolutivi. Musica astratta, se vogliamo un po’ romantica e sempre tonale. The wedding viene da African Marketplace del 1980. Anche in questo frangente l’andamento ha qualcosa di rituale, di corale, quasi un gospel nel quale si manifesta una sorta di aristocratica tristezza, come fosse musica intenzionalmente gioiosa che si trasformi poi in una meditazione con molti riflessi malinconici. L’ultimo momento del disco è Signal on the hill, il secondo pezzo inedito di Solotude. E questo sembra proprio un abbozzo alla Duke Ellington, una melodia felice, piena, con quegli accordi eleganti che costituivano il rigoglio armonico del Duca.

Solotude è un lavoro di grande bellezza, ammaliante, coinvolgente e soprattutto che rivela quello che già si intuiva nella lunga carriera di Ibrahim, cioè  la sua anima profondamente ricca, colmata da un senso di appagato abbandono raggiunto in tutti questi anni di intensa attività compositiva.

Tracklist:
01. Mindiff
02. Trieste My Love
03. Nisa
04. Blue Bolero
05. In-Tempo
06. Dreamtime
07. Blue Bolero (First Reprise)
08. Peace
09. Blues For A Hip King
10. District 6
11. Tokai
12. District 6 (Reprise)
13. Pula
14. Sotho Blue
15. Blue Bolero (Second Reprise)
16. Did You Hear That Sound?
17. In The Evening
18. Once Upon A Midnight
19. The Wedding
20. Signal On The Hill