
Racconto breve di Enrica Bardetti
E’ scoppiata l’estate. In Pianura Padana, tra Piacenza e Parma dove abito io, succede così: fino al giorno prima una piacevole brezza entra dalle finestre aperte e fa roteare le pesanti tende di cotone bianco tese per schermare i raggi del sole; il giorno dopo invece è tutto fermo, non si respira. Oggi è domenica. L’afa rende statica ogni cosa: anche gli irriducibili tosatori di erba del week end hanno desistito. C’è silenzio: non si sente né il cinguettio degli uccelli né il ronzio di una mosca. Ogni tanto la quiete è rotta dal lontano frinire di una cicala. Tutto è avvolto in quella calma tipica che spinge all’inerzia, favorisce lo sguardo interiore e solletica i ricordi.
Per ammazzare il tempo sfoglio una rivista. Sulle pagine patinate i colori sono accesi: tutto ricorda l’estate e le vacanze. In questa pagina una modella indossa un ridotto bikini giallo evidenziatore sulla pelle ambrata. Sta distesa su una spiaggia dall’irreale colore verde oliva. Questa volta hanno proprio esagerato con i filtri, penso. Leggo l’articolo e scopro che la spiaggia esiste davvero: è Papakōlea Beach, detta anche Green Sand Beach nelle Hawaiì, famosa perché ricca di olivina, minerale che l’oceano ha estratto con l’erosione da un deposito di frammenti vulcanici. Non si finisce mai di imparare.
Riprendo a sfogliare, poi l’occhio mi cade su un dipinto di Giorgio de Chirico. Mi incuriosisce perché è molto diverso dai quadri che conosco di questo artista: non c’è niente di metafisico qui. Nell’articolo Sgarbi scrive che “Bagnanti sopra una spiaggia” è un quadro del 1932, l’anno in cui sei nata tu. Sulla spiaggia cinque giovani donne godono della brezza marina, nude. Non sono stati solo la coincidenza dell’anno o i suoi piedi molto simili ai tuoi, che mi hanno fatto pensare a te, ma anche lo sguardo della donna in primo piano: è serio, scostante e anche un po’ infastidito. A te il mare non è mai piaciuto, preferivi la montagna (Io sto bene qui, con gli occhi pieni di verde, tra i profumi del bosco). Mi ci portavi ogni anno, però, su suggerimento del medico: ero una bambina gracile, con poco appetito. Mi lasciavi in spiaggia con tua madre o tua sorella mentre ti rifugiavi a leggere nella frescura della pineta, l’inseparabile Giallo Mondadori in mano e il pacchetto di sigarette in tasca (Tutto quel sole mi manda in fumo il cervello, a me. Ve lo lascio a voi, che vi piace). In spiaggia ci venivi solo al mattino presto, prima di colazione. Partivamo che non erano ancora le sette (Non dimenticare il secchiello per le conchiglie, che le più belle si trovano solo a quest’ora). Nelle mani tutto quello che serviva per la nostra escursione: secchiello paletta rastrello e retino io, accappatoi asciugamani sigarette e accendino, tu. Passavamo al setaccio tutta la spiaggia. Le mie urla entusiaste echeggiavano tra i lettini vuoti e gli ombrelloni chiusi: Mamma, mamma questa è bellissima. Tu ti giravi, lasciavi uscire il fumo dalle labbra e mi sorridevi. Poi, quando il sole cominciava a sentirsi sulla pelle, mettevamo il costume ed entravamo in acqua. Il retino si riempiva di lumachine di mare con il guscio a spirale e, se era una giornata fortunata, anche di qualche Murice (Appoggiala all’orecchio, lo senti il suono del mare?). Uscite dall’acqua mi avvolgevi nell’accappatoio verde (Vieni qui, che mi prendi freddo e poi ti ammali) e mi tenevi strettastretta fino a quando non eri convinta che mi fossi scaldata.
Un giorno, che la pesca era stata particolarmente abbondante eravamo rientrate in hotel con il telo rosso pieno di lumachine di mare. L’avevamo lasciato steso sul balcone della nostra camera per tutto il giorno (Mettile al sole, così asciugano bene). Era mia intenzione raccoglierne tante e conservarle: una volta a casa le avrei colorate di rosso, giallo, rosa, verde e blu e incollate sul coperchio di scatole portaoggetti da regalare alle amiche più care. Quella sera successe una cosa che rovinò l’armonia tra di noi e scavò una crepa che nel corso degli anni altri episodi, apparentemente irrilevanti, avrebbero assestato.
Avevo stretto amicizia con un gruppo di bambini, maschi e femmine, ospiti dell’hotel. Tu non l’avevi presa bene, non li vedevi di buon occhio (Non dargli troppa confidenza a quelli lì, che non sappiamo neanche chi sono). Eri prevenuta verso gli altri, l’amicizia non faceva parte del tuo modo di essere, forse perché avevi dovuto imparare presto a diffidare degli altri: un marito che si era ammalato quasi subito, la vedovanza dopo solo cinque anni di matrimonio, la presenza di una suocera arcigna e indagatrice ti avevano scavato il vuoto intorno (Io sto bene da sola, non mi trovo bene con nessuno, mi fido solo di me). Quel giorno l’avevo passato tutto insieme a loro: prima in spiaggia a fare castelli di sabbia sulla riva, poi in hotel dopo cena tra partite a calcetto e stupidate. Tu te ne stavi in disparte, immusonita. Osservavi seria me e i miei schiamazzi da un lato, tua madre e tua sorella chiacchierare amabilmente con un gruppetto di altre villeggianti, dall’altro. Ad un certo punto ricordo di aver guardato verso la tua sedia e di averla trovata vuota: te ne eri andata senza avvisarmi. Avevo continuato a giocare, ma senza più trasporto e con un brutto presentimento che mi cresceva dentro.
Poco dopo avevo salutato gli amici e ti avevo cercata in camera: la porta era aperta, le luci spente. Ricordo di essermi affacciata sul balcone e di averti trovata seduta che fumavi, seria, con lo sguardo rivolto verso il mare che non hai accennato a spostare. Ho guardato in terra in cerca delle lumachine, pronta a riporle nel sacchetto insieme alle altre: il telo rosso era scomparso. Mamma, dove sono le mie conchiglie? La voce tremante, il cuore impazzito nell’attesa della risposta: sono usciti i molluschi e sono scappati lungo il muro. Lo sapevi che non ti avrei creduto: tu stessa mi avevi spiegato che si chiamavano lumachine, ma non erano come quelle di terra che mangiavano la lattuga strisciando nell’orto, fuori dall’acqua queste morivano. Lo sapevi, ma avevi sostenuto la tua tesi, nonostante le mie rimostranze. Quella notte non cercai la tua mano prima di addormentarmi. Fu forse proprio questo episodio che segnò il lento, ma inesorabile taglio del cordone ombelicale che mi univa a te, quel primo passo amaro e disincantato che apre la via verso il “diventare grandi”.
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