Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Stefania D’Egidio

Probabile che qualcuno dirà che mi sono completamente rincoglionito o più semplicemente che ho solo completato il processo. Non ci posso fare niente: la Trap, tranne pochissime eccezioni, non mi dice nulla. Fenomeni più smaccatamente Pop e attaccati ad influenze più classiche, però, mi stanno entusiasmando: i vari Ghemon, Willie Peyote, Cosmo, Frah Quintale, persino Calcutta.

Tutti artisti diversi tra loro, accomunati però dall’avere trasformato e riletto in maniera impensabile, quel genere che fino a ieri si chiamava Indie Rock. Sono riconducibili al Rap e alcuni provengono da quel background ma non lo sono fino in fondo; hanno sonorità Pop ma non inseguono le formule standardizzate; flirtano a più riprese chi con l’elettronica, chi con l’RnB, a volte mescolando tutto insieme. Sono accomunati dal fatto di scrivere bene, benissimo.
Il nuovo Mainstream sono loro, è venuto il momento di ammetterlo. In Italia, la musica contemporanea è questa cosa qui. Il rock è roba che si può studiare nelle università, la stessa cosa per quel fenomeno che fino a dieci anni fa chiamavamo “Alternative”. Nel resto del mondo Rap, RnB, Neo Soul, Electric Pop e altre sigle affini, sono ormai padrone del mercato e della scena. Il presente è questo, almeno per il momento e se invece di lamentarci provassimo a guardare attentamente di che cosa si tratta, il mondo sarebbe un posto migliore.
Coez è un esponente di questo calderone effervescente. Dopo i grandi artisti Trap, c’è lui e Carl Brave X Franco 126 (di cui scrivo qui), quando si parla di vendite di dischi (anche se ormai dovremmo parlare in termini di ascolti su Spotify e piattaforme simili) e incassi dei concerti. Sarà forse presto per dire se siamo o meno al cospetto di una nuova “scuola romana”, ma sta di fatto che l’ispirazione, a questa città, non sta mancando per niente.
Loro non li avevo ancora visti dal vivo e nel giro di due giorni mi è capitato di colmare questa doppia lacuna. Se mi è piaciuto o meno ve lo dico nelle righe seguenti…

“Faccio un casino” è diventato un successo passo dopo passo, è cresciuto lentamente ma inesorabilmente, fino a mangiarsi i due dischi già realizzati da Silvano Albanese (questo il suo vero nome) e a collezionare sold out ai concerti. Più che un artista alternativo, appunto, qui si sta parlando di vero e proprio Mainstream, anche se ancora a San Siro non lo stiamo vedendo. I biglietti per la data del Carroponte sono finiti da mesi, caso più unico che raro per una venue esclusivamente estiva, dove gli artisti passano dopo aver già fatto diversi giri, e dunque quasi mai si propongono come “esclusive”. Ed effettivamente Coez ha suonato in lungo e in largo per l’Italia, è stato visto da tutti quelli che lo volevano vedere. Un sold out come questo, seppur in un posto non grandissimo, credo sia la più grande certificazione di successo che l’artista romano potesse cercare al momento.
Vado a vederlo per curiosità, per poter esprimere un giudizio maggiormente compiuto, ma io con Coez non ho mai avuto un bel rapporto. Pur partendo sempre dal presupposto che chi fa questi numeri se lo merita, perché soprattutto nell’ambiente musicale di oggi non esiste nulla di casuale, ho sempre trovato la sua musica un po’ troppo leggera e alla lunga banale, soprattutto per testi di argomento amoroso, non particolarmente elaborati nella scrittura e alla lunga fin troppo ripetitivi.

Il concerto è ordinario, nulla di più. Coez sul palco è allegro e disinvolto, supportato da una band solida che garantisce una riproduzione fedele dei vari brani, senza troppo aggiungere rispetto alla versione in studio. Manca una batteria e questo influisce sul tiro complessivo (ma questa è più che altro una mia ossessione, lo riconosco) ma nel complesso non ci si può dire che non ci si diverta.
Il Carroponte, come detto, è pieno in ogni ordine di posto (lo frequento da anni e ci vado parecchie volte all’anno, giuro di non aver mai visto tutta quella gente) ma il palco principale ha il difetto di essere situato in una zona troppo lunga e stretta, una sorta di corridoio e di non essere dotata di un grande impianto di amplificazione. Per me che ero posizionato sul lato destro, fuori dal raggio delle casse principali, la resa sonora non è stata impeccabile, con volumi decisamente troppo bassi. Questo particolare mi ha impedito di godermi appieno un concerto che, seppure piuttosto scolastico e a tratti un po’ freddino, è risultato gradevole e ha suscitato gli entusiasmi del pubblico (ovviamente giovanissimo, con un’altissima percentuale di adolescenti).

Scaletta ampia e variegata, che ha privilegiato i brani di “Faccio un casino” (con la title track addirittura suonata due volte di fila, perché a suo dire la gente non l’aveva cantata abbastanza forte!) ma ha spaziato in lungo e in largo anche nel repertorio dei primi due album. In effetti il concetto si apre con “Siamo morti insieme”, proposta in una versione più allegra, con chitarre e batteria elettronica che le danno un maggior piglio. Ancora, pezzi come “Ali sporche” (“La mia prima hit!” dice introducendola), “Non erano fiori”, “Niente che non va”, “Costole rotte”, “Hangover”, sono esemplificativi di una scrittura forse ingenua ma per niente acerba, che sapeva sin da subito mettere insieme melodie ammiccanti ed efficaci, un Pop non certo sofisticato ma funzionale al messaggio che vuole trasmettere. Anche i brani dell’ultimo disco fanno la loro figura e arrivo alla fine convinto che, pur non amandolo particolarmente, Silvano sia un artista di talento e un ottimo autore.
Tutti cantano a squarciagola le parole di ogni canzone, ma nel consueto tripudio di telefonini si capisce che questa è un’audience poco avvezza ai concerti. C’è entusiasmo, certamente, ma ci sono anche tante persone distratte, tante che chiacchierano e vivono quel che accade solo come un sottofondo alle loro conversazioni.
Alla fine non è un brutto spettacolo ma ho avuto l’impressione di una certa scolasticità, di un odore di routine che ha un po’ penalizzato il tutto a livello generale.
Per carità, ripeto, Coez scrive bene e non piace così tanto per caso. Dal vivo è migliorabile ma è anche ovvio che sia così, scrivere canzoni che funzionano e portarle sul palco sono due operazioni parecchio diverse.