L I V E – R E P O R T


Articolo e immagini sonore di Stefania D’Egidio

Chi, per questioni anagrafiche, non ha vissuto l’epoca d’oro del glam, guardando i Darkness dal vivo potrà assaporarne i fasti: gli ingredienti ci sono tutti, dal look colorato ed eccentrico alla teatralità delle esibizioni, il tutto condito con un pizzico di autoironia che non guasta mai.

Sabato 20 sono stata per la prima volta dopo un anno al Carroponte, rinnovatosi nella gestione e nell’aspetto, con il solo palco grande centrale ad accogliere gli artisti e la novità di una tribuna vip, nuova di zecca, da cui guardare gli show dall’alto.
Il calendario 2019 è ricco di eventi, con grossi nomi della musica ad accompagnare la calda estate milanese, concerti per tutti i gusti, dagli Ska-P alla magica chitarra di Robben Ford, da Emis Killa a Loredana Bertè; tra i vari appuntamenti ho scelto la band britannica perché, dopo averli visti al Gods of Metal 2012, in apertura a Slash e Motley Crue (quella volta saltò la corrente e dovettero accorciare la scaletta), e a Imola nel 2017, in apertura ai Guns’n’Roses, ero curiosa di vedere come se la cavavano da headliners.
Che la serata sia speciale lo si capisce dalla difficoltà a trovare parcheggio, arrivo con qualche minuto di ritardo, mi affretto a ingurgitare un hamburger e poi di corsa sotto il palco per le band che daranno il via al concerto; aprono le danze gli Hangarvain, mai ascoltati in precedenza, già dalle prime note mi piacciono un casino per la capacità di mischiare bene hard rock, blues e un tantino di grunge made in USA, al loro seguito hanno un esercito di fedelissimi festanti che intonano i cori delle canzoni, l’atmosfera si fa incandescente, le luci del giorno piano piano svaniscono lasciando il posto ai riflettori e, ahimè, a orde di zanzare assetate del nostro sangue: nel pit e nella prima fila ognuno cerca di difendersi come meglio può, tirando fuori salviettine e spray repellenti.

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Agli Hangarvain segue una mia vecchia conoscenza, i bolognesi Noise Pollution, tra le prime band ad aver fotografato, un mix esplosivo di hard rock e metal, con un basso che spacca di brutto; anche per loro una mezzora buona per esibirsi davanti a un pubblico caldissimo, che è andato in visibilio quando, in chiusura, hanno proposto la cover di Whola Lotta Love dei Led Zeppelin, la canzone ideale per esaltare a dovere le doti canore del frontman.

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Poco dopo le 22.00 ecco salire sul palco la band britannica: Justin con una camicia hawaiana e pantaloni fucsia, Frankie Poullain con l’immancabile completo seventy a righe e dei capelli da far invidia alla mia prof del ginnasio, Daniel in giacca di pelle e Rufus Taylor, nascosto dietro una batteria enorme, riesco a vederne solo la chioma bionda e gli occhi di ghiaccio che ha ereditato da papà Roger, mitico batterista dei Queen.

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E con i Queen i Darkness hanno i comune non solo la nazionalità, ma anche la presenza scenica, il gusto per la teatralità al limite del comico e l’autoironia; il concerto si apre con Black Shuk, dalla prima fila si alzano le mani con striscioni di David Hasselhoff, che, in pochi lo sanno, ma oltre a guidare una supercar cantava anche Lights in The Darkness, una trentina di anni fa…
Si capisce subito quale sarà l’andazzo dello show, pochi brani e subito compaiono sul palco enormi palloni gonfiabili, ce li passiamo tra un riff di chitarra e uno scatto; Justin è, come prevedibile, un toro scatenato, corre e salta da una parte all’altra, in pochi secondi è già madido di sudore; piovono attorno a lui reggiseni rigorosamente taglia 4 e biancheria intima di ogni specie, a fine concerto avrà raccolto un bel bottino di guerra.
Non bisogna attendere molto per ascoltare i pezzi cardine della loro carriera, da Love Is Only A Feeling a Open Fire e a One Way Ticket to Hell; a servizio finito ci fanno accomodare sulla tribuna vip dove ritroviamo i protagonisti dell’apertura concerto; dall’alto c’è una bella vista con un tappeto di teste e mani illuminate dai fari e la possibiltà di apprezzare ancora meglio la performance di Justin, che, accaldato, chiede al pubblico di passargli degli shorts…ed ecco sbucare non dei normali pantaloncini, ma un bel paio di shorts zebrati, in linea con lo stile del frontman.
Sarà una mia fissa, ma vederlo muovere sul palco mi ha ricordato tantissimo Freddie Mercury, fisicamente e per la voce, tornata allo splendore degli inizi dopo i noti problemi di salute, quando intona a cappella Friday Night è puro godimento per i miei timpani. Fortunato chi, verso la fine del concerto se l’è visto arrivare in mezzo al pubblico, comodamente seduto sulle spalle di un uomo della security, mentre faceva un lunghissimo assolo di chitarra con la sua LesPaul bianca.
La canzone più attesa naturalmente era I Believe in A Thing Called Love: per l’occasione tutina attillata, proprio come nel videoclip, e l’invito in italiano a saltare a più non posso e mica ce lo siamo fatti ripetere due volte, tutti su e giù, a tentare di imitare i suoi acuti nel ritornello e poi a tenere il tempo con le mani insieme alla batteria.

Setlist completa:

1. Black Shuck
2. Growing on Me
3. Open Fire
4. Love Is Only a Feeling
5. One Way Ticket
6. Barbarian
7. Southern Trains
8. Friday Night
9. Roaring Waters
10. Givin’ Up
11. Japanese Prisoner of Love
12. Stuck in a Rut
13. I Believe in a Thing Called Love

Encore:

14. Get Your Hands Off My Woman
15. Love on the Rocks With No Ice