L E T T U R E


Recensione al libro di Elisabetta Ferri e alcune considerazioni sul genere fantastico

Articolo di Simone Santi

‹‹[…] Dunque, l’arte che vuole? Questo solo:
che si veda quello che si sente e si senta
quello che non si vede, ma nell’aria,
anche da lontano, già profuma.››[1]

V. Cozzoli
 

Ricordo alcuni anni fa che la scrittrice Silvana De Mari era solita iniziare le proprie conferenze, presentandosi come autrice di romanzi fantasy, con una salace citazione di Aldo, Giovanni e Giacomo in uno dei loro celebri sketch, quello in cui i tre, mascherati con tanto di costumi e corna, parodiavano proprio questo genere letterario giocando con l’immaginario di alcuni suoi clichè e stereotipi linguistici:‹‹Io sono il grande Pdor, figlio di Kmer, della tribù di Istar, della terra desolata del Kfnir…››. Scopo di tale richiamo da parte della scrittrice era di dare un divertente esempio riguardo alla considerazione che generalmente viene tributata al fantasy presso la critica letteraria più colta e per certi versi anche nell’immaginario comune, che lo vogliono tra i generi cosiddetti minori; a dispetto per la verità di un certa fama della quale esso ha sinceramente goduto in anni recenti sull’onda lunga del successo editoriale di alcuni titoli e dell’affluenza di pubblico nelle sale per assisterne alle riduzioni cinematografiche.

Per sconfessare la superficialità insita in questa sottovalutazione del fantasy, l’autrice de L’ULTIMO ELFO sviluppava i propri interventi elicitandone le nobili ascendenze, e  come in esso si fondono due tra i repertori letterari più antichi: il poema epico e la fiaba. Dal primo ha ereditato i valori cavallereschi della forza, della lealtà e del coraggio, mentre dalla seconda ha ricevuto il valore più intimo e profondo dei sentimenti e il desiderio di sentirci amati.
A ciò si può aggiungere qualcosa ancora. Seguendo la feconda prospettiva di Vladimir Propp sui racconti di magia (convenzionalmente tradotti poi dal russo come racconti di fate), possiamo riconoscere nelle fiabe e nel folklore profonde analogie formali con i repertori mitici dei popoli e delle civiltà del mondo antico. Da ciò egli deriva che le fiabe in origine non sarebbero che resti di miti di epoche anteriori i quali, ad un certo punto del loro processo vitale nell’alveo delle culture di cui erano una manifestazione, hanno perduto il rapporto con la sfera del sacro e con le pratiche religiose, mutando cosìfunzione e tramandandosi come materiale narrativo disponibile per le forme ed i modi del racconto popolare. Questa spiegazione rende conto della corrispondenza, puntualmente riscontrata dal formalista russo, tra i temi e i motivi narrativi presenti nelle fiabe e le azioni rituali delle prime civiltà storiche e di quelle preletterarie oggetto di interesse etnologico.
Gli osservatori più attenti da parte loro hanno da sempre riconosciuto nelle forme della fiaba la presenza dello schema iniziatico così come veniva ritualmente celebrato nelle antiche religioni misteriche, e in generale nell’ambito di quei complessi sistemi di cerimonie che l’etnologo e folklorista Arnold Van Gennep ha studiato e compreso nella definizione diriti di passaggio[3]. Del resto le stesse letture in chiave analitica delle fiabe come narrazione simbolica dei processi dello sviluppo psichico e della personalità umana attingono di fatto al potenziale trasformativo insito nella lettura e nell’ascolto di queste storie.
L’attenzione rivolta da Propp ad uno studio genetico di tale fenomeno ci è utile per ascrivere al fantasy ascendenze che oltrepassano i confini strettamente letterari, e collocano le sue espressioni più ataviche al tempo in cui i cantori–sciamani compivano viaggi fuori da sé e accedevano alla dimensione del sacro, dalla quale attingevano conoscenza riguardo ai fondamenti e alle origini del mondo, degli uomini e della vita stessa. Attivare il meccanismo del narrar miti aveva dunque la funzione di fondare, di ordinare e di mantenere in modo coerente i vari aspetti della vita sociale secondo rapporti di equilibrio e di armonia con le realtà del mondo superiore e del mondo infero degli spiriti e delle entità.

Questa premessa mi è parsa doverosa e consona ad introdurre il secondo libro di Elisabetta Ferri, IL LABIRINTO E ALTRI RACCONTI, edito da Libreria Editoriale Sibilla e uscito a giugno di quest’anno. Si tratta di una raccolta di dieci storie, idealmente divise in due parti, attribuibili al genere fantasy già per il fatto che nelle prime righe della Presentazione è l’autrice stessa a definirsi orgogliosamente una scrittrice di fantasy.
Da sempre gli scrittori affidano le proprie riflessioni riguardanti argomenti e temi letterari a scritti di carattere teorico, ben prima che nel Novecento nascesse una disciplina dedicata allo studio della teoria letteraria – penso solo alla ricchezza filosofica e alla profondità speculativa del CONVIVIO, in cui Dante avvia il dialogo coi lettori e prepara sotto il profilo contenutistico e linguistico quella materia che dovranno trovare successivo e pieno compimento nella scrittura della COMEDIA.
Introducendoci ne IL LABIRINTO E ALTRI RACCONTI, Elisabetta Ferri esprime la necessità di collocare e radicare la propria scrittura in un genere letterario di cui riconosce una nobile genealogia: ‹‹ […] il fantasy non è un genere secondo a nessuno, anzi nasce dal genere letterario più importante e longevo del passato: la narrazione epica. Per intenderci, i cicli arturiani, le “chansons de geste”, l’Orlando Furioso e, perché no?, anche l’Odissea e la Commedia di Dante […] luoghi che appartengono al nostro immaginario, quindi si tratta di una narrazione fantastica.››. Nel compiere questa operazione l’autrice di fatto presenta ai lettori la propria concezione di letteratura, oltre ad una considerazione elevata del proprio genere di elezione.
Tali considerazioni mi richiamano d’appresso l’idea di letteratura che nel corso degli anni ha progressivamente maturato uno dei massimi artisti visionari del Novecento, Jorge Luis Borges; un’idea che trascende il concetto stesso di classificazione in generi letterari o almeno ne svela la natura convenzionale e arbitraria, al punto di affermare che il fantastico e la metafisica (e, aggiungo io, il mito) possano convivere all’interno della medesima categoria.
Borges,
come ci ricorda Scarsella in un saggio a lui dedicato, è più volte ritornato con speciale attenzione sul genere fantasticoin alcune sue pubblicazioni così come in alcune dichiarazioni,relative alla collocazione della propria opera, rese nel corso di conversazioni e interviste. In un breve saggio dal titolo LA LITERATURA FANTASTICA (trascrizione stenografica di una conferenza svoltasi alla Escuela Camillo y Adriano Olivetti nel 1967) lo scrittore argentino suddivide il campo della letteratura in due territori: da una parte la letteratura realistica, la quale tratta di situazioni più o meno comuni e quotidiane; dall’altra abbiamo la letteratura fantastica, la quale “non ha altro limite che le possibilità dell’immaginazione”. Tuttavia poche righe dopo egli è costretto a constatare che nonostante la libertà pressoché sconfinata lasciata alla letteratura fantastica di avventurarsi in ogni sorta di astrazioni, in verità i temi che sviluppa sono assai limitati di numero. Una tale limitazione va ricondotta, e in ciò consiste il vero incanto del genere fantastico e insieme il valore più autentico di cui Borges onora questa letteratura, al fatto che non si tratta di storie inventate in modo arbitrario: esse sono fantastiche nel senso di simboliche, nella misura in cui parlano di noi, del mondo e di ciò che c’è di più instabile e misterioso nell’esistenza.
Elisabetta Ferri nella presentazione al suo libro di racconti individua due possibilità per la scrittura. La prima è la via che definisce del “verismo”, perseguita dallo scrittore che descrive la realtà in modo definitorio, denotativo, interessandosi all’esteriorità più immediata dell’oggetto di cui tratta. La seconda via è quella rappresentata dal fantasy, che al contrario predilige le sfumature, le verità più sfuggenti e nascoste della realtà, le connotazioni soggettive della narrazione, esplora l’ampiezza dei campi semantici in tutte le loro possibilità espressive, fa oscillare i significati delle parole. Rispetto alla concretezza del “verismo”, il fantastico adotta uno stile che già più si avvicina al linguaggio allusivo della poesia. Il magico flauto mediante il quale lo scrittore fantasy acquista il potere di suonare la musica inebriante capace di ispirare questa sorta di incantamento, di sollevare il lettore dalla polvere del reale e rapirlo dentro la fascinazione fictiva verso le forme trasparenti e cangianti dell’immaginario, è identificato da Elisabetta nell’artificio retorico della metafora.

La metafora di per sé è già una realtà problematica; afferrabile con intuitiva immediatezza, essa si è tuttavia rivelata nel tempo un tropo resistente ad ogni forma di definizione, a meno di non ricorrere a ulteriori metafore e similitudini nel tentativo di decifrarne l’essenza. Meglio della semantica, e di una definizione “verista”, può aiutarci a comprendere la diversa natura della metafora il ricorso alla sua etimologia. L’origine del termine è dal greco antico, il verbo composto meta-pherein, dove pherein ha il significato di “portare”, mentre la preposizione meta- include il triplice significato di “trasformazione”, “trasferimento” e “trascendere, passare aldilà”. Pertanto possiamo convenire che al fondo di questo termine troviamo il senso di un passaggio di stato che conferisce una nuova identità, una nuova natura, eun processo di trasformazione che produce una traslazione in un “al di là” che conduce su di un piano di realtà “altro”.
L’esito trasformativo, quasi alchemico sotteso all’artificio (nel senso letterale di “fatto ad arte”) retorico della metafora, per quanto in un linguaggio ormai desacralizzato dalla nostra cultura attuale, effettivamente ci riporta alle radici mitiche prima discusse del genere fantasy, ai sui rapporti con la sfera del sacro e coi regni oltremondani, coi riti di passaggio, con le pratiche sciamaniche e con gli spiriti della natura. La metafora ci riporta al tempo delmito e delle origini del mondo, o ancor meglio, la metafora stessa appartiene a quello stato dell’esperienza e della coscienza all’interno del quale il primo creatore di miti si immergeva per realizzare mediante il canto ciò che nelle diverse tradizioni viene rappresentato come l’albero cosmico, la scala sonora, la montagna sacra, l’axis mundi, mediante cui veniva temporaneamente ripristinato il contatto trail mondo degli uomini e il mondo degli spiriti, la terra e il cielo, il visibile e l’invisibile, e l’unità della realtà nei suoi molteplici livelli dell’esistenza.
Così
la funzione della metafora, non più solo retoricamente intesa, diviene principalmente quella di rendere visibile l’invisibile, la vitalità segreta, l’ordine nascosto delle cose. E se lo scrittore, come suggerisce Annamaria Cavalli, è anch’egli “un visionario che anticipa la realtà del mondo”, la qualità più propria della sua scrittura sarà alfine quella di materializzare plasticamente attraverso la metafora ciò che emerge dall’ombra, dal sogno, dal ricordo e dal desiderio. La scrittura può allora farsi percorso per cercare di approssimarci sempre più alla realtà vera, forandone la superficie materiale e tangibile per lasciarne intravedereil fondo spirituale.
IL LABIRINTO E ALTRI RACCONTI è un libro di disvelamenti. L’autrice porta a emersione un mondo recondito e per lo più inaccessibile, se non per brevi squarci improvvisi quali sono i racconti di questa raccolta, che per un attimo sembrano fare un po’ di luce addentro le ombre fitte del nostro paesaggio interiore. L’autrice si cimenta nello scandaglio di quel territorio che Mallarmè aveva definito la “messa in scena interiore”, quella parte più intima e profonda di noi, vitalissima e ineffabile, che per venire alla luce non possiede linguaggi più veri ed efficaci di quelli artistici e visionari.
L’invisibile che la scrittura di Elisabetta fa apparire è la trama dei sentimenti umani. In quella che idealmente si può considerare la seconda parte del libro ci sono sei storie dedicate al racconto di altrettanti sentimenti o stati d’animo che, sostanziati dalla narrazione nei personaggi e nelle loro vicende, diventano attitudini e approcci alla vita. I racconti più brevi (Tsukimahishi, Vàldor e Eänìa) nella loro essenzialità si esprimono in forme che richiamano più da vicino la fiaba, mentre storie come Il padrone di Lilith e Cuore di cristallo già si concedono ad una più ariosa articolazione e ci offrono un approfondimento sensibile e riuscito dei vissuti emotivi e delle pieghe interiori dei personaggi, caratteri che forse già anticipano una possibile evoluzione della scrittura di Elisabetta verso la forma del romanzo.
Una riflessione a parte meritano gli ultimi due racconti, La cattedrale e Il labirinto, che l’autrice definisce “surreali”. Tratti surrealisti sono bensì evidenti in queste storie, la prima onirica e visionaria, mentre la seconda si addentra nei meandri psichici più profondi dove i mostri della sofferenza si agitano nell’inconscio e assumono aspetti mostruosi e persecutori. Stavolta le vicende sono narrate in prima persona, i protagonisti ci accompagnano a conoscere e a recepire attraverso i loro occhi e la loro pelle sentimenti confusi di paura, di solitudine, di disperazione e di speranza.
Tutte queste storie parlano del coraggio e della vera volontà di affrontare i pericoli a rischio di cambiare noi stessi; della paura che ci fa fuggire e ci tiene nascosti agli altri e alla vita, magari facendoci sentire soli; parlano della sofferenza che talora ci fa diventare meschini, e della sofferenza che può spingerci con forza irresistibile a metterci in viaggio per trovarle un senso. A muovere silenziosamente la narrazione verso i suoi esiti necessari è il processo trasformativo proprio del racconto fantastico, ereditato dalle sue arcane origini mitiche e rituali, in virtù del quale i protagonisti del racconto, e allo stesso modo il lettore se accetta di partecipare al gioco, sono accompagnati a passare attraverso la “prova difficile” e rinascere come una persona nuova. In definitiva questi racconti costituiscono un tentativo e un’esortazione a dare una collocazione all’umana esperienza del dolore e a traslarne il significato, attraverso i processi metaforici, all’interno di un orizzonte esistenziale di senso più ampio.


Lo stesso afflato raccoglie anche le prime quattro storie del libro, che ne costituiscono per così dire l’apertura. Il primo, per usare le parole dell’autrice, è un racconto “verista”: ‹‹ […] La “cornice” è di pura fantasia, però i pensieri, i disagi, la sofferenza descritti sono reali.››. Come ci dicono le scarse note autobiografiche, Elisabetta non parla molto di sé, ciò nonostante il suo è un libro trabocca di vita vissuta. Elisabetta conosce il peso e l’importanza delle parole, e sa mettersi al loro servizio. Il primo racconto si intitola Ho l’endometriosi: ‹‹[…] So che questo tema non ha nulla a che fare con gli altri, ma io desideravo esprimere almeno per una volta in vita mia e con parole molto chiare quello che ho vissuto e che vivo dentro di me a causa di questa malattia. Questa patologia è così particolare, così piena di sfaccettature che avrei dovuto usare delle immagini troppo difficili da decodificare. Invece di questa malattia occorre parlare chiaramente…››. Queste semplici e decise parole introduttive sono il manifesto dell’impegno che Elisabetta ha assunto di dare voce alle troppe donne che vivono nell’incomprensione e nel silenzio il dolore e i disagi di una malattia vile e dagli esiti nefasti sul corpo di chi ne soffre; malattia altamente invalidante ma che solo di recentemente abbia ricevuto adeguato riconoscimento sul piano legislativo.
Elisabetta sta raccogliendo le testimonianze di donne malate di endometriosi, perché la necessità preliminare è di parlarne. Nonostante il numero di donne che ne soffrono, l’endometriosi è ancora sottostimata e non facilmente diagnosticata, a causa purtroppo di pregiudizi e di scarsa informazione lungi dall’essere superati. Gli effetti di questa situazione spesso hanno ricadute ulteriormente gravose anche sul piano relazionale e affettivo, data la scarsità di informazione e la difficoltà per famigliari e amici di comprendere ciò che accade alle persone che ne sono vittime. Seguono
Nel primo racconto dunque viene raccontata con estrema semplicità e delicatezza l’endometriosi nei suoi aspetti medici, quotidiani ed emotivi. Seguono tre storie che non sono scritti letterari, ma testimonianze dirette di alcune delle donne che hanno affidato a Elisabetta il racconto della loro esperienza con la malattia.
A questo punto mi permetto di dissentire affettuosamente con l’autrice, quando dice che ‹‹questo tema non ha nulla a che fare con gli altri››. Certamente la loro scrittura tende a voler cogliere la malattia nella sua espressione più immediata, nel suo essere corpo. Tuttavia le prime quattro storie de IL LABIRINTO E ALTRI RACCONTI illustrano maestosamente i principali valori del genere fantastico: sono storie di coraggio, di forza e volontà, valori già appartenenti all’epos; c’è il rapporto iniziatico con la paura e il dolore, con la solitudine e con la fuga; c’è il venire a giorno dell’invisibile nel visibile, di una malattia che dal chiuso del corpo diventa voce e letteratura, che grazie alla scrittura prende il centro della scena. C’è la funzione del narrar storie a fondare e rendere coerentemente visibile la quotidianità delle donne che convivono dolorosamentecon l’endometriosi, e a tentare di darne una prospettiva di senso, come si fa negli interventi di medicina narrativa.
Come scrive la prof.ssa Cavalli: ‹‹Realistico e fantastico, lungi dall’essere, sotto il profilo ermeneutico, due visioni/riproduzioni antitetiche del mondo, s’incontrano nel concetto platonico di “imitazione” […] se l’espressione artistica è di alto livello, riesce sempre a far interagire i due piani, perché […] ricrea il mistero che abita in ogni entità, riproduce ciò che è essenziale, oltre l’apparenza su cui scivola indifferente l’occhio, dà voce all’assenza, traccia prospettive inaspettate, scopre il ritmo segreto di cui sono impregnati fatti, azioni, sensazioni››
[6].
Ancora di più, io ritengo che se siamo sul piano di una creazione autenticamente ispirata, una “espressione artistica di alto livello” può (deve!) poter oltrepassare il concetto platonico di “imitazione” e rendere nuovamente accessibile per un attimo l’albero cosmico, la scala, la montagna sacra, la terra di Hurkalya; quel luogo intermedio tra gli esseri umani e quelli divini, tra la materia e lo spirito, dove l’invisibile può manifestarsi e agli uomini è concesso di coglierlo mediante una visione dell’anima, così da rendere temporaneamente possibile l’esperienza fenomenica della realtà nella sua totalità.

Note bibliografiche:
[1] V. COZZOLI, Dunque, l’Arte che vuole?, Castelfranco Veneto (TV), LCE Edizioni, 2014
[2] V. J. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri editore, 1985
[3] A. VAN GENNEP, I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri editore, 1981
[4] A. SCARSELLA, Il tassello mancante. Primi rilievi sopra una rara conferenza di Borges Jorge, in Luis Borges: un’eredità letteraria vol. 1, a cura di Pia Masiero, Venezia, Cafoscarina, 2008
[5] A. CAVALLI, Oltre la soglia. Fantastico, sogno e femminile nella letteratura italiana e dintorni, Milano, Edizioni Unicopli, 2002
[6] A. Cavalli, IBIDEM